Lug 20, 2007 - racconti brevi    4 Comments

kivulimi – La città di pietra

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 Farai vela intorno al mondo per trovare il lavoro che ti è stato destinato e colui che ti aiuterà a compierlo…” Il roco bisbiglio languì fino a tacere, poi la vecchia lasciò andare la mano e arretrò, scuotendo la testa come per liberarsi di qualcosa… “vento e acqua salata e alberi come scope… e uomini color cioccolato e neri che muoiono. Che muoiono sotto il sole e la pioggia…”  (*)

Il pulmino che abbiamo noleggiato si ferma nella zona antistante il porto. Ho il cuore in gola, sono emozionantissima. E’ da anni che aspetto questo momento. Quasi quasi mi dispiace di non essere sola, ma in compagnia di due coppie di turisti che ho conosciuto al villaggio. E’ sciocco lo so, ma questo è un momento soltanto mio, che non vorrei condividere con nessuno, a maggior ragione con degli estranei. Prendiamo accordi con l’autista del bus per il ritorno e ci apprestiamo a fare il giro della città.

Nelle antiche residenze dei sultani o nelle case signorili della Città di Pietra (Stone Town), è possibile intravedere le vestigia di un fastoso passato. Dimore, Come la casa delle Meraviglie, costruita dal terzo sultano di Zanzibar, Bargash, più di un secolo fa, sono state quasi del tutto spogliate dei loro preziosi tesori, ma restano, a testimonianza dei passati splendori, gli ornamenti arabescati delle balaustre, le scale di legno e i maestosi portali finemente intagliati. Ovunque, camminando per le strade strette della parte antica della città ci s’imbatte in dimore indiane o arabe, i cui portali riccamente intarsiati testimoniavano l’opulenza delle famiglie che un tempo le hanno abitate. Oggi le più belle di esse sono state ristrutturate e trasformate in alberghi di lusso per i ricchi turisti arabi. La decadenza della città alberga nel suo passato di centro di smistamento degli schiavi e nella fine di tale spregevole commercio. Emblema di questo triste passato la cattedrale anglicana costruita verso la fine del diciannovesimo secolo per volere di padre Edward Steel, sulla piazza del mercato degli schiavi, dove giungevano quelli di loro che erano sopravvissuti, stipati nelle stive delle navi negriere per giorni e giorni, malnutriti ed in condizioni sanitarie pessime. Lì venivano fustigati con una violenza inaudita per metterne alla prova la resistenza fisica e poi venduti.

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La turista di Varese che mi cammina di fianco, mi guarda sbalordita “Ma come fai a sapere tutte queste cose?” mi chiede. Io sorrido ed alzo le spalle. Per me è stato un pò come tornare a casa. Con la fantasia ho percorso queste strade centinaia di volte. “Continua,” mi esorta. Io sorrido, un po’ imbarazzata. E’ una cosa nuova per me, ma il suo interesse è genuino e questo mi esorta ad andare avanti.

Zanzibar fin dall’antichità è stata meta di esploratori e conquistatori e questo soprattutto per la sua strategica posizione geografica. Famosi esploratori come Livingstone sono passati di qui prima di inoltrarsi nei meandri dell’Africa nera. Il sultano Seyyid Said , il leone di Oman, nel 1832 trasferì qui la capitale del sultanato da Mascate a Zanzibar, proprio perché da qui era possibile controllare il vastissimo tratto di costa su cui si dipanava il suo regno. Sono all’incirca di quel periodo le relazioni diplomatiche con Stati Uniti e Gran Bretagna, in quegli anni particolarmente impegnate nella lotta contro la schiavitù. Solo nel 1873 il sultano Bargash fratello di Seyyid Said e suo successore, firmò un editto che metteva fuori legge la tratta degli schiavi. La rivoluzione del 1964 ha visto l’indipendenza dell’isola e l’ingresso di questa nella Repubblica della Tanzania. Zanzibar oggi è una regione semiautonoma, con un suo presidente ed una camera dei rappresentanti.
Stone Town, la capitale dell’isola, è una città multietnica dove convivono musulmani, che rappresentano la maggioranza della popolazione, indù, sikh e cattolici. Essa si apre sul golfo di Zanzibar ed offre la vista sul porto mercantile; sull’enorme casa delle Meraviglie, con la torre dell’orologio, i due cannoni all’ingresso puntati verso il mare e le ampie balconate merlettate; sulle mura che circondano il vecchio forte la cui costruzione fu intrapresa nel 1698 dagli arabi di Oman succeduti all’occupazione portoghese durata circa due secoli; sul palazzo del museo dimora dell’ultimo sultano e sui maestosi alberi di acacia del parco.

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Ho trovato un nuovo amico. Mi segue da un bel po’ di tempo, anche se non saprei dire esattamente da quando, perché la visita al mercato mi ha abbastanza scioccata. La vista della carne macellata all’aperto e quell’olezzo acre ed intenso mi ha stordita, non vedevo l’ora di uscire, ma non è stata un’impresa facile. E’ stato come entrare in una galleria degli orrori e ad ogni passo sussultavo trovandomi di fronte qualche uomo dall’aspetto raccapricciante e maleodorante. La città brulica di questi ragazzini scuri di pelle, dai lineamenti delicatissimi e leggermente a mandorla, ansiosi di accompagnare i turisti nella speranza di raggranellare qualcosa. Gli stipendi sono infinitamente bassi, rispetto ai nostri canoni europei, di conseguenza quelli che a noi appaiono come pochi inutili spiccioli, qui rappresentano la paga di giorni e giorni di lavoro. Per questo motivo le autorità pregano i turisti di compensare le giovani guide con oggetti, come penne o quaderni, per evitare che attratti dalla prospettiva di guadagni facili abbandonino la scuola. Il mio giovane accompagnatore è molto tenace. Finora non gli ho dato nulla. Gli abiti sono logori ed il volto scarno. Non sono riuscita a comprendere il suo nome. E’ poco più di un bambino, ma la sua logica è certamente quella di un adulto. Non voglio dargli soldi e non ho nulla con me da potergli regalare. Così quando ci fermiamo davanti ad una specie di bar dove i miei compagni si fermano a prendere qualcosa da bere, entro e gli compro una cocacola. Lui quasi me la strappa di mano e la beve tutto d’un fiato con un’avidità che mi impressiona, dopodichè con noncuranza getta la lattina in terra. Mi sento malissimo e centinaia di anni di schiavitù, sfruttamento ed oppressione mi pesano sulle spalle come un macigno. Regalandogli quella bibita, ho fatto nel mio piccolo ciò che per secoli le compagnie ed i governi coloniali hanno fatto a spese di questa povera gente. Imporgli uno stile di vita che non gli appartiene e che dopo centinaia di anni ancora non hanno metabolizzato, ma che condiziona negativamente il loro modo di vivere. 
Ovunque andrete a Zanzibar sentirete spesso le parole akuna matata (nessun problema) e pole pole (adagio adagio). Nonostante quella per la sopravvivenza sia una lotta quotidiana, l’incessante contrapposizione fra tradizioni secolari e l’irruenza del progresso occidentale, negli occhi scuri e profondi di questa gente risplendono un’antica saggezza ed una giovialità invidiabili. Ovunque andrete a Zanzibar incontrerete bambini, i più belli del mondo. Scalzi, in abitini consunti e pomposamente europei. Resterete incantati dalla bellezza dei loro occhi e dalla dolcezza dei loro sorrisi, dai loro sguardi incuriositi e dalla voglia di giocare, proprio come tutti i bambini del mondo. E proprio essi sembrano essere i depositari del fascino misterioso dell’Africa e delle sue cocenti contraddizioni.

continua                
                                                           penny.blue

 

(*) Da “Vento dell’Est di M.M. Kaye

kivulimi – La città di pietraultima modifica: 2007-07-20T07:50:00+02:00da refusi
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4 Commenti

  • Si, invidia per quello che hai visto, per gli odori che ti hanno stordito, per la lingua con cui ti hanno parlato, per la fortuna di aver incontrato uomini, bambini, donne che negli occhi hanno ancora il sorriso. Per la tua Africa.

  • Penny.blu sei tu, credo. E comunque grazie anche se mi sono sbagliata.

  • per notimetolose
    sbagliata su cosa?

  • grazie Ref per gli auguri che hai lasciato da me, tornerò a leggere con calma questi nuovi scritti (e quelli delle tue amiche) ciao Mai.