Set 12, 2007 - racconti brevi    4 Comments

fantascienza

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Io ci sono capitato per caso da quelle parti, è successo tanto tempo fa, mi sono imbattuto nel primo romanzo di fantascienza dopo aver rimbalzato per tanti anni attraverso la letteratura mondiale dell’epoca, quando stanco ed annoiato da letture che parevano ripetersi similmente eguali in ogni sfumatura, sono capitato sul mio  primo romanzo fantastico, ed è stato amore a prima vista, un amore ricambiato nel corso di tutti questi anni, certo c’è stata anche qualche delusione, ma quale amore non ne causa? Un amore privato e geloso, difficile da spiegare a chi alla fantascienza non si è mai accostato considerandola un genere di seconda categoria. Non starò  ha spiegare a quanti la pensano in questo modo come possano sbagliarsi non avrebbe senso, mi limiterò a dire che la fantascienza è un genere complesso e vario e che abbraccia diversi filoni narrativi ed al tempo stesso per nulla facile e che chi scrive di fantascienza deve essere culturalmente preparato in parecchi campi cosa che non succede nella letteratura normale. Beh se mi chiedete a cosa è dovuto questo elogio alla fantascienza ,  è che per caso conversando in forum con un’amica ho scoperto non solo, come anche lei amasse questo genere di letteratura, ma che in passato si era anche cimentata nella stesura di un racconto. La curiosità è stata grande e la richiesta di prenderne visione immediata, ora dopo averlo letto ed avendolo trovato non solo interessante ma anche scritto bene desidero pubblicarlo, con l’autorizzazione dell’autrice naturalmente. Ho sempre considerato i romanzi di fantascienza come complesse favole per adulti perché la nostra vita è una favola e necessita quasi sempre del sogno, perché…………………

                                    il mondo non esiste il mondo non è vero
                                  
 niente ha più realtà del sogno…………

                                                                          roberto vecchioni

      refusi

APPUNTAMENTO

NEL PARCO

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Era lì, davanti a me, con l’aria di chi volesse interrogarmi.

Mi osservava insistentemente, chiuso nel cappotto logoro, mentre io facevo di tutto per cercare di ignorarlo.

Non avevo idea di quanto tempo avesse passato ad osservarmi, tuttavia mi pareva di essere lì da un’eternità e non l’avevo visto arrivare. Mi mossi a disagio, sulla panchina di legno verde dura come il marmo. Poi ricambiai sfacciatamente il suo sguardo, ma lui non battè ciglio. Così fui io a fare la prima domanda. “Che hai da fissarmi a quel modo?” “Sei strano”, fu la risposta, e io per poco non gli scoppiai a ridere in faccia. Era il tipo più incredibile che mi fosse mai capitato di incontrare: dimostrava almeno cinquant’anni, la sua faccia e le sue mani erano ricoperte da vari strati di sporcizia, i suoi capelli erano così unti da far pensare che li avesse lavati con del lubrificante per motori e indossava dei vestiti che dovevano essere già vecchi quando era giovane mio nonno. E aveva l’impudenza di dire a me che ero strano. Stavo per mandarlo al diavolo, quando fui colto da un pensiero terribile: e se avesse avuto ragione? D’istinto mi guardai le mani, i vestiti, le scarpe. La loro apparente normalità e il fatto che fossi perfettamente pulito non mi tranquillizzarono affatto, e il mio sguardo spaziò tutt’intorno, alla ricerca della stonatura che la mia mente cominciava già ad avvertire. Osservai con apprensione il viale di terra battuta che ci separava, le panchine verdi meticolosamente distanziate fra loro, gli alberi frondosi che quasi nascondevano il sole, e tornai a fissare il barbone di fronte a me con occhi nuovi. Non aveva torto, dopotutto: che diavolo ci facevo io, pulito e benvestito, seduto sulla panchina di un parco? E, già che c’ero, non dimenticai di pormi la domanda fondamentale: chi diavolo ero, io?

“Le pulsazioni sono in leggero aumento. C’è un aumento di intensità anche nello schema mnemonico, ma l’oscillatore è ancora stabile.” “Bene. Gli inietti un calmante prima che raggiunga la soglia critica: non intendo perderlo anche stavolta” “Tentiamo un ripristino forzato?” “Il rischio di un altro shock è troppo elevato: potremmo provocare un rigetto della matrice.” La voce divenne un sussurro.  “Forza, Johansen, adesso dipende da te.”

Il mio nome è Nico De Salvo. Così affermavano i documenti che trovai nella tasca posteriore dei pantaloni. Sono di nazionalità portoghese. Ho trentadue anni. Sono alto un metro e ottantadue. Ho i capelli neri e gli occhi verdi. Malauguratamente non avevo uno specchietto con me, per controllare se la mia faccia somigliava o no a quella sulla carta d’identità. In ogni caso, avevo problemi ben più gravi da risolvere. Lo sconosciuto di fronte a me continuava a fissarmi con l’aria meditabonda. Non avevo la forza di dirgli nulla. Lui sorrise con aria complice e tirò fuori dalla tasca del cappotto una bottiglia avvolta in una pagina di giornale. “Un altro goccetto?”, chiese cordialmente. Ebbi un moto di stizza. Pensava forse che fossi un ubriacone? “Non bevo a quest’ora del giorno”, risposi con astio. E subito dopo controllai l’orologio. Diceva che erano le tre e venti del pomeriggio. Sentivo che questo avrebbe dovuto suggerirmi qualcosa, ma i miei pensieri erano ormai una pulsazione dolorosa che mi martellava la nuca e le tempie. Mi tenni la testa per un lungo minuto, obbligandomi a riordinare le idee. Solo che non me ne veniva nessuna. “Non temere”, disse l’individuo che avevo di fronte cercando di rassicurarmi. “Ti passerà. Passa sempre.” Gli rivolsi uno sguardo omicida. Perché diavolo non mi lasciava in pace? Perché non se ne andava a casa, dovunque fosse? E perché mai, con tante panchine a disposizione, si ostinava a restare seduto proprio su quella? Fu come se mi avesse letto nel pensiero. “Se non ti piace la compagnia”, commentò alzando la bottiglia, “perché non te vai da un’altra parte?” Rimasi sconcertato a fissarlo, mentre lui beveva un lungo sorso di quella roba. Perché? Perché non sapevo dove andare, ecco perché! Perché sulla mia carta d’identità quella riga era semplicemente vuota! Vuota! Vuota come la mia testa, se si esclude il tipo col martello pneumatico che da un po’ ci abitava dentro. Lo maledissi con tutte le mie forze, mentre quello, indifferente, continuava a martellare, a fare buchi sempre più larghi e più profondi, fino a ridurre a brandelli il mio senso dell’humour. E la mia lucidità. “Devi avere un bel problema, amico”, stava dicendo il barbone. “O un pessimo carattere. Quale delle due?” Ero di nuovo lucido, come se il tipo col martello avesse traslocato. Alzai la testa, sospirando. “Non prendertela, eh, ma forse ti farebbe bene parlarne.” Invece di rispondere gli rivolsi lo sguardo che meritava. “Senti, non ho detto di essere uno psicologo”, si giustificò lui alzandosi. Venne verso di me trascinandosi dietro la bottiglia, e mi si sedette accanto. “Ho detto solo che dovresti parlare dei tuoi problemi con qualcuno.” Si guardò intorno con fare teatrale, allargò le braccia e si girò verso di me, sorridendo. “Ma qui ci sono solo io!” Ricevetti in piena faccia una zaffata d’alcool puro. Abbassai la testa per evitare di portarmi la mano al naso e fargli così capire cosa ne pensavo della sua offerta. Lo sguardo mi cadde sul foglio di giornale che avvolgeva la bottiglia, e la notizia che vi era riportata mi provocò un brivido che non riuscii a spiegarmi. “Interessato alle notizie?”, chiese lui, affabile, e mi porse il foglio consunto. La bottiglia se la tenne ben stretta. “Brutta storia”, commentò ammiccando verso la pagina sgualcita. “Quelli della Transluna stavolta l’hanno fatta grossa. Il governo minaccia di sospendere il Progetto.” Transluna. Il Progetto. Parole che solleticavano la mia memoria. Diedi una rapida scorsa all’articolo. Riferiva di un incidente sulla Luna, durante i lavori di costruzione della linea sotterranea che avrebbe dovuto collegare le stazioni Selene I e Selene II: un tecnico morto, tre gravemente feriti, numerosi macchinari distrutti. I lavori erano stati sospesi in attesa di accertare le cause del disastro. Un danno che si esprimeva in una cifra con tanti di quegli zeri da risultare impronunciabile. “La costruiranno, la loro città lunare”, commentò il tipo accanto a me. “Hanno speso troppi soldi.” “E’ una cosa terribile”, dissi, senza capire perché il pensiero di quella gente mi addolorasse tanto. “Non come può sembrare”, commentò lui. “Ogni grande impresa ha un prezzo, e quasi sempre lo si paga in vite umane.” Rimasi a fissarlo stupito per qualche istante: non mi aspettavo pensieri così profondi da un barbone sporco e stracciato. A dirla tutta, fino a pochi minuti prima non immaginavo nemmeno che avrei iniziato con lui una conversazione qualunque. “E secondo te è un prezzo equo?” gli chiesi. “Non c’è equità, quando alcuni pagano più di altri.” Ero più confuso che mai: le mie orecchie ascoltavano parole che facevano a pugni con quello che vedevano i miei occhi. Ammisi con me stesso che l’avevo giudicato male, certo per stupidi preconcetti che attribuivano l’intelligenza e la profondità d’animo solo a certe categorie di persone. Era davvero singolare che fosse seduto accanto a me, pensatore in incognito, proprio nel momento in cui avevo più bisogno di qualcuno che mi aiutasse a pensare. “Com’è che controllavi il portafoglio?”, chiese lui cambiando discorso. Decisi di dirglielo, per evitare malintesi. “Cercavo la mia carta d’identità. In questo momento la mia memoria è in vacanza: non mi ricordo un bel niente.” “Lo dicevo io che avevi un problema. Beh, la mia offerta è ancora valida: ti offro la mia spalla per piangerci sopra.” “Perché?” “Sai, non ho fatto molta conversazione, ultimamente.” “Non parli come un barbone. Chi sei, in realtà?” “Lo spirito del parco, e quella panchina è la mia casa”, ribattè lui in tono stizzito. “E adesso che lo sai, torniamo a chi sei tu. Prova a pensare: secondo te, perché sei qui?” Era un ottimo psicologo, contrariamente a quanto asseriva. “Beh, ho la sensazione di avere un appuntamento.” “Su una panchina pubblica? Allora è una donna. Come si chiama?” Stavo quasi per dirgli che non me lo ricordavo, quando un flash attraversò la mia mente: una ragazza di circa ventisei anni, lunghi capelli neri, occhi scuri, un sorriso radioso. Veniva verso di me, camminando con passo leggero lungo il viale alberato, e agitava la mano destra in segno di saluto. Le mie labbra formarono un nome, e io lo ripetei ad alta voce, incantato. Sara. “Magnifico”, disse il mio novello psicologo. “E magari questa era la vostra panchina. Pensaci: questo posto non ti ricorda nulla?” Sembrava che le sue parole fossero la chiave per liberare i miei pensieri. Brandelli di tenebra scivolarono via, e schegge di ricordi mi aggredirono simultaneamente. Sara. Le nostre telefonate. Il nostro appuntamento pomeridiano. Le lunghe passeggiate nel parco. Sara che mi viene incontro sorridente, lungo il viale alberato. Mi bacia e mi abbraccia, e mi tiene teneramente la mano, mentre parliamo, e parliamo, seduti vicini, su questa stessa panchina. Mi racconta la sua giornata, i suoi pensieri, i suoi dubbi. Mi parla del nuovo lavoro. b5b48793ea617ce22a0e68c18feed513.jpgIl lavoro che la porterà lontano, sulla Luna. “Ehi, qualche problema?” “No”, risposi confuso. “E’ solo… un ricordo.” Un ricordo che andava sviluppandosi col passare dei secondi. Sara fu destinata a base Selene I. Il suo lavoro di operatore specializzato l’avrebbe trattenuta sulla Luna per svariati anni, ed era talmente entusiasta di partecipare all’ambizioso Progetto Città Lunare, che non ebbi il coraggio di chiederle di rinunciare.

Ma non potevo restarle lontano per tutto quel tempo, così feci domande su domande, esami su esami, finché non risultai psicologicamente idoneo, e non venni assunto anch’io dalla Transluna Company. Fui assegnato alla sua stessa base.

Mi premetti le tempie, cercando di ricordare di più, e i ricordi non si fecero attendere. “Ero un C-M” dissi, tra me. E notando l’espressione indagatrice del mio compagno, mi affrettai a spiegare: “Un cervello per macchine. In pratica il mio lavoro consisteva nel guidare una specie di trattore con otto braccia meccaniche, che faceva da spola all’interno della sotterranea e serviva per riparare i guasti degli escavatori.  Solo che, se avessi dovuto guidarlo dall’interno, sarebbe stato troppo grosso per passare tra le pareti delle gallerie e tutti i macchinari che c’erano dentro, e certo non avrebbe potuto arrampicarsi sopra gli escavatori. Così lo guidavo da una cabina esterna: indossavo il mio visore, i miei guanti, ed ero collegato col trattore. Io mi muovevo in una specie di paesaggio virtuale, e la macchina faceva quello che facevo io. E’ un po’ come essere un uomo meccanicizzato.”
“Allora, se hai lavorato alla sotterranea, forse eri presente all’incidente”, disse lui. “Quel giornale è di dieci giorni fa.” Per un secondo mi chiesi come era possibile che la sua bottiglia di liquore fosse la stessa da ben dieci giorni, ma fu solo per un secondo. L’attimo dopo la mia testa esplose in un lampo di cupo dolore, e io seppi chi ero, e cosa avevo fatto.

“L’oscillatore è impazzito!” “Stabilizzare! Congelate le pulsazioni! Dov’è quella siringa? Infermiera!” “Lo stiamo perdendo!” “Ossigeno!”, pretese la voce più autorevole. “Staccate la matrice! Staccate quella dannata matrice!” “ Soglia critica”, comunicò una voce femminile. “Gli inietti un’altra dose di calmante”, replicò la voce autorevole. “Situazione dello schema mnemonico?” Ci fu un attimo di costernato silenzio. Poi un’altra voce rispose: “Oscurato.” “Niente panico: abbiamo ancora un paio di minuti. Riavvolgete la matrice fino al punto di shock. Tentiamo di ripristinare l’ultimo schema coerente. Qualcuno resetti l’oscillatore. Pronti? Ripristinare!”

Mi sembrava di impazzire. Balzai in piedi, gridando come un forsennato. Ero stato io. Era stato lo stupido trattore. Qualcosa nel suo cervello, o forse nel mio, era andato improvvisamente fuori fase, e le braccia meccaniche avevano cominciato a colpire tutto quello che era a portata di mano: i cavi di alimentazione, il generatore, l’impianto di aerazione… e il piccolo trattore grigio accanto a me. Il trattore di Sara. “De Salvo, calmati!”, gridò Johansen, ritto accanto a me, nel logoro cappotto. “Fermati! Siediti! De Salvo, smettila: non è stata colpa tua, non sei stato tu!” Mi strattonò finché non riacquistai il controllo. E allora piansi, piansi a lungo, disperato. “Ascoltami”, diceva Johansen, mentre una piccola parte del mio cervello lo riconosceva “Il peggio è passato. Siamo stati costretti a farti ricordare l’incidente perché tu potessi superare lo shock causato dalla morte di Sara. Il computer che ti collegava al trattore ha causato l’incidente: tu non potevi far nulla. Tu eri solo intrappolato lì dentro, e Dio solo sa cosa abbiamo dovuto fare per tirarti fuori dalla cabina di controllo senza mandarti in pappa il cervello. Mi capisci? De Salvo!” Ero stato io. Io ero lì, io vedevo tutto. E le braccia del trattore erano le mie braccia. Io avevo scollegato all’improvviso il cervello di Sara dal trattore. Io l’avevo uccisa. Ero stato io. “Lei era tutta la mia vita”, balbettai. “E io l’ho uccisa.” Johansen scosse la testa. “E’ stata una disgrazia. Cerca di farti forza, De Salvo. Ora dobbiamo uscire da qui.” In un attimo di lucidità compresi cosa voleva dire: in realtà, noi non eravamo lì.  Probabilmente io ero in un letto d’ospedale, collegato a un computer che possedeva una matrice con la registrazione di tutti i miei ricordi, e qualcuno stava cercando di ripristinarli. Ma Johansen? Che ci faceva lui, lì?
Di nuovo, sembrò leggermi nel pensiero. “Il tuo schema mnemonico era intatto, e avevamo una registrazione dei tuoi ricordi risalente a soli due giorni prima dell’incidente, così abbiamo tentato di ripristinarli. Ma la matrice si è bloccata e ha cominciato a girare a vuoto. Così mi sono collegato al tuo schema e mi sono ritrovato qui. Ma che diavolo c’è qui, che ti impedisce di ricordare tutto ciò che è successo da questo punto in poi?” Fissai il nostro capo psicologo per un lungo istante, poi lasciai che i ricordi tornassero in me. Sara. Il nostro appuntamento. Le nostre passeggiate nel parco. La nostra panchina.  Sedevamo qui, quando le dissi che sarei partito anch’io. E lei sorrise, e mi strinse forte, e mi disse che saremmo rimasti sempre insieme.
“Non posso venire con te, Johansen”, dissi, sentendomi la mente improvvisamente leggera.  “Tra poco Sara arriverà, e dobbiamo fare un lungo discorso.”
Lui sembrò non capire. Mi disse che dovevo superare lo shock, che non potevano ripristinare la matrice, se io non lo seguivo volontariamente lontano da lì. Ma io scossi la testa, deciso. “No: ho un appuntamento con Sara. Ci vediamo domani, Johansen.” Lui rispose che non ci sarebbe stato nessun domani, e disse anche altre cose, ma non le ricordo, e poi all’improvviso non c’era più.  Ma non m’importava. Non mi importa.
Mi siedo, sulla panchina verde, in attesa. d81cb0fc88263d35c57e583785e260af.jpgTra poco Sara arriverà, camminando con passo leggero lungo il viale alberato. Mi correrà incontro sorridente, mi abbraccerà e mi bacerà, e mi terrà teneramente la mano, raccontandomi la sua meravigliosa giornata. In un punto indefinito della mia mente, la voce insidiosa di Johansen continua a chiamarmi. Mi dice che tutto questo non è reale. Dice che Sara è morta, e che io non la vedrò mai più.

Ma è una voce bugiarda, e io non voglio ascoltarla.

                                                                                        
                                                                                      
alice1099

                   

fantascienzaultima modifica: 2007-09-12T16:15:00+02:00da refusi
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4 Commenti

  • una delicata storia d’amore,su uno sfondo futuristico,fatto di scenari lunari,dove si ritrova comunque il legame che da secoli unisce i terrestri…
    l’amore…
    brava alice.

  • inizialmente ero scettica in quanto non amante della fantascienza, è stata una piacevole sorpresa leggere queste righe…….brava alice…

  • non so perchè ma la fantascienza non sono mai riuscita ad amarla. Mai dire mai però 🙂

  • I titoli a volte tradiscono gli appuntamenti…… non in questo caso. Sicuramente l’autrice è un’appassionata lettrice delle storie di Philip k. Dick. ciao