Lug 9, 2007 - racconti brevi    1 Comment

Alla locanda del buon consiglio

c09d46805fba86d0a37c6609c5d06323.jpg La si incontra sulla strada che porta al valico, una strada in terra battuta tutta buche e sassi che sale in continui tornanti in una stretta valle tappezzata di pinete dalle quali fuoriescono, come rinsecchite dita di una mano arcigna le cime innevate dei monti. La trovi là, dove la strada inizia a spianare, dietro l’ultimo tornante, dopo ore di cammino e quasi allo sfinimento per la fatica, si perché a quel luogo ci si può salire solo a piedi, ti appare d’avanti agli occhi all’improvviso quasi come un  miraggio e tale ti pare proprio in verità, offuscata e distorna nell’immagine dalle gocce di sudore che copiose ti colano dalla fronte sulle sopraciglia sino a giungere agli occhi. Ed è proprio in quel punto che ti soffermi ad osservarla, appena dopo la curva, ti fermi, raddrizzi la schiena piegata dalla salita e dalla fatica, e con il fazzoletto ti pulisci del sudore la fronte e ti asciughi gli occhi per poi guardarla di nuovo e scoprire, con un sospiro di sollievo che non è un miraggio, che è vera ed è lì che ti aspetta. Costruita tutta in pietre, con il tetto in ardesia, grigia, ma da quel grigio escono dirompenti della macchie rosse, come fossero rose su una pietraia, le persiane delle piccole finestre verniciate di rosso e, dietro ai vetri, si possono scorgere le tendine bianche a quadretti rossi anch’esse e accanto, vicino a un paio di tavoli  ed ad alcune panche sempre in pietra, su di un piccolo pennone sventola la bandiera. L’impressione di essere giunti in un altro mondo è palese, la sensazione che quella casetta, quella valle, quei boschi di pini, quei monti così alteri e ancora coperti di neve possano appartenere solo ad un sogno ti permea ed era con questo spirito che camminando piano, quasi con imbarazzo, sentendoti ancora estraneo al luogo, ti avvicini all’ingresso di quella casetta, dove sulla porta capeggia un insegna di legno e dove si può leggere inciso ” Alla locanda del buon consiglio “.

La porta è stretta, formata da due grandi pilastri di pietra sormontati da un’altra pietra posta sopra in orizzontale a mo’ di architrave, è stretta ma non e bassa, eppure l’impressione è tale che tutti, anche i più piccoli entrando piegano il capo, forse in un inconsapevole inchino di rispetto verso il luogo del quale stanno per varcare la soglia. Dentro è ombreggiato e la differenza con la luce forte a cui si era sottoposti all’esterno costringe a strizzare gli occhi più volte per adattarli all’ambiente e lì tutto è legno il bancone del bar, il pavimento, i grossi tronchi che ai lati fungono anche da colonne portanti, le panche, i grandi tavoli scuri in legno massello su cui cappeggiano la tovaglie anche queste a quadretti bianchi e rossi come le tendine alle finestre. Solo il grande camino acceso, sulla parete di fondo e dove fuma un immenso paiolo carico di polenta, richiama la costruzione in pietra dell’esterno. Attorno ai vari tavoli sono sedute alcune compagnie, non c’è molta gente oggi, è un giorno feriale, tutta gente non più giovane e con ogni probabilità abitanti di uno dei due paesini che si incontrano ai lati del valico,  montanari e contadini che vivono di quanto la terra di questi luoghi può dare, anche la bellezza ha i suoi difetti, è avara ed il poter fruire di certi luoghi ha il suo prezzo, la fatica. Hanno i volti cotti dal sole, i tratti del viso duri, marcati, che paiono scavati nel legno, ma non c’è durezza in quelle espressioni, c’è fatica, stanchezza, c’è quella pazienza che la terra ti insegna ad avere se vuoi godere dei suoi frutti, e negli sguardi la comprensione per la fatica degli altri, nel sorriso tutto l’amore che ancora sono in grado di dare, offerto così, senza nulla chiedere in cambio, con un gesto della mano, un leggero alzarsi del bicchiere, un saluto al tuo arrivo, un silenzioso omaggio a te e alla fatica che ti è costato per raggiungere quel luogo. Sono lì perché è stagione di funghi, e perché loro vivono anche di questo, hanno i loro canestri pieni di porcini bruni di pineta, di quelli più chiari, i fioroni,  raccolti all’inizio della valle e di gallinacci o perseghit, come chiamano da queste parti i finferli, sono contenti del raccolto e sorridono, domani le loro donne o i loro figli, saranno al mercato, o lungo le strade che giù sotto attraversano la valle a vendere i frutti delle loro fatiche, perché loro saranno ancora li, nel bosco che sale ripido verso le cime intenti alla cerca e alla raccolta di quanto la natura di quel posto ha voluto generosamente donare. Ci sediamo in un tavolo d’angolo, anche noi vogliamo mangiare qualche cosa, e subito la padrona ci si avvicina, non esiste una carta, un menù, con voce cantilenante, pacata e dolce, ci illustra quanto ci sia di disponibile, salame nostrano, bresaola, polenta e formaggio, polenta e funghi, polenta e stufato, sì, da queste parti la polenta la fa da padrona. Chiediamo se non sia possibile avere la polenta con un po di tutto, ci sorride e dice di si che non c’è problama e da bere? Vino rosso sfuso e…………gazzosa, si quello che da queste parti chiamano la ciciarada, la chiaccherata, perché d’avanti ad un bicchiere, si passano delle ore a parlare, a ridere e a raccontarsi, senza il rischio di esagerare nel bere, perché il vino, pur esendo corposo, non ha un alta gradazione alcolica e la gazzosa ne riduce gli effetti,  anche perché poi, c’è ancora da scendere sulle proprie gambe. Veniamo serviti, la brocca in coccio del vino, la bottiglia di gazzosa, i bicchieri sono quelli in vetro pesante che riempiono interamente la mano, a sei facce e svasati verso l’alto, grezzi, poi arriva lei la regina di questi luoghi, la polenta, servita in ampi piatti di portata, una parte già mischiata a formaggio e burro, la polenta taragna, l’altra nuda ma accompagnata a fianco da abbondanti mestoli di funghi trifolati e stufato e vi assicuro che allora lì, in quel luogo, il paradiso non è poi così lontano. Affondiamo le forchette nel piatto e, in religioso silenzio assaporiamo quanto ci è stato servito, e forse a causa della fatica, della fame, del luogo, nulla ci era mai parso così buono, e decidiamo che un pasto così debba merirate anche un degno finale, una fetta di crostata e un bicchierino di grappa entrambi al mirtillo sono il suggello al nostro pasto e meritata ricompensa alle nostre fatiche. Poi un breve sonnellino al sole naturalmente, all’ombra non sarebbe possibile, prima di riprendere la via della valle e raggiungere il paesino dove abbiamo lasciato l’auto parcheggiata e giunti a valle ci riproponiamo di tornare in quel luogo e siamo certi che lo rifaremo e ricordiamo anche di esserci dimenticati di chiedere alla locandiera quale fosse il buon consiglio rendendoci  conto nello stesso istante come non ne sia più il caso.

 

                                                                                            

 

                                                                                                                refusi

Alla locanda del buon consiglioultima modifica: 2007-07-09T10:45:00+02:00da refusi
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1 Commento

  • mi hai fatto tornare alla mente un piatto di polenta con il cervo mangiato in una locanda simile a quella da te descritta, e mi hai fatto tornare alla mente il senso di felicità pura che in quei momenti ho provato, perchè sì è proprio vero non c’era niente di meglio di quel piatto fumante, di quell’atmosfera calma e calda, di quella luce filtrante dall’esterno che si perdeva nei pulviscoli di polvere che si alzavano all’interno… anche io avrei voluto tornarci, anche io mi ero ripromessa di tornarci, ma poi tutto è cambiato… quella locanda sarà ancora là, quell’atmosfera sarà ancora là in attesa di chi a volte non può tornare… un saluto Mai.