Browsing "racconti brevi"
Nov 11, 2007 - racconti brevi    22 Comments

Bigia

7ba2198719ae99924268f82e31f3ca40.jpg

 

 

Giuseppe, detto il Bigia, nato in una piccola frazione di Ballabio in Val Sassina, ora provincia di Lecco. Giuseppe innamorato della sua valle e dei suoi monti, Giuseppe detto il Bigia, soprannome che gli era rimasto appiccicato addosso sin da ragazzino, perché già da allora era solito bigiare la scuola per arrampicarsi lungo i sentieri impervi che conducevano lungo le valli alla raccolta di narcisi in primavera, di funghi o di castagne alla fine dell’estate o all’inizio dell’autunno, oppure per lanciarsi, con la voglia di conquistare il mondo negli occhi, lungo le piste innevate di Artavaggio, piccola stazione sciistica locale. Oppure salire su, in alto, lungo le ferrate e le pareti che conducevano sulle cime del Resegone, delle Grigne, del Sodadura, sempre con la stessa voglia negli occhi.  Giuseppe, operaio in una vicina officina metalmeccanica, alto, magro, scuro, di un aspetto quasi solenne nella sua semplicità, così simile ad un crocefisso alpino. Uomo di poche parole, di lunghi silenzi, silenzi pari a quelli delle sue valli, delle sue montagne. Silenzi intervallati da luminosi e semplici  sorrisi, da sguardi che si sprigionavano da profondi occhi azzurri dentro i quali era così facile leggere il suo grande amore per la vita, si perché lui alla vita aveva chiesto solo quello che la vita avrebbe potuto dargli, si lui il Bigia il suo mondo lo aveva già conquistato. C’erano due grandi amori nella sua vita, la montagna e lei, Angela, uno scricciolo di poco più di quaranta chili, piccola, minuta dolce, allegra e disponibile. Era quasi buffo vederli assieme lui lungo allampanato, tranquillo, lei al suo fianco sembrava una bambina vivace al fianco di un padre, ma quando salivano in cordata lungo le pareti, o quando assieme scendevano lungo le piste innevate, ecco che improvvisamente quella differenza che si notava immediatamente vedendoli uno accanto all’altra scompariva e subito saltava agli occhi di chi li osservava l’eleganza, la contemporaneità dei movimenti quasi si muovessero in simbiosi consapevoli entrambi dei movimenti dell’altro. Si muovevano sempre assieme, dove c’era uno c’era anche l’altra, si racconta che lui avesse anche cercato di cambiare lavoro e di farsi assumere nel caseificio della valle dove lei lavorava, ma non perché ne fosse geloso, solo perché Angela, per lui, era come la montagna, un amore troppo profondo per potersene staccare anche solo per poche ore. Poi un brutto giorno, Giuseppe perse uno dei suoi grandi amori, una fredda sera invernale rientrando dal lavoro forse a causa del fondo stradale ghiacciato, Angela perse il controllo dell’auto e finì nel greto del torrente sottostante, la trovarono solo il mattino dopo, quando ormai era troppo tardi. Il Bigia scomparve, gli amici si chiesero dove fosse finito perché nessuno lo vide più sulle piste per tutta la durata dell’inverno, lo incontrarono nuovamente in primavera lungo uno dei percorsi che portava alle vette, stava là, accucciato in un affranto di roccia, dove erano soliti fermarsi per un breve spuntino prima di continuare la salita lui e Angela, con gli occhi fissi verso le cime e le valli che gli si aprivano d’avanti agli occhi, salutava con un sorriso quanti passavano, e sempre con un sorriso scuoteva il capo con un gesto diniego a quanti  gli chiedevano di proseguire con loro la salita. La sua vita divenne quasi un rito, nel tempo libero saliva sui suoi monti ad abbracciare le montagne che tanto amava per ricordare assieme a loro quell’altro grande amore che la vita gli aveva tolto. Tranquillo e silenzioso, sempre sorridente e generoso, sì perché  era sempre il primo ad accorrere in caso di incidenti sulla neve affiancando quelli del soccorso, o a partire sulle pareti, anche da solo, in aiuto di arrampicatori in difficoltà o alla ricerca di qualcuno smarrito. Così passavano gli anni, sempre uguali ripetitivi nei gesti  e nei ricordi ma mai monotoni, perché accompagnati dall’ amore per i luoghi e nel ricordo di quell’altro amore. Continuando a scalare, continuando a sciare sempre con quel sorriso, con quello sguardo, con quel leggero cenno di saluto accennato col capo prima di partire per l’arrampicata o lanciarsi giù lungo la pista. Sino a quell’anno, sì, sino a quel malaugurato anno in cui a causa della stupidità, dell’incapacità dei gestori degli impianti che per anni avevano pensato solo al guadagno senza mai rinnovare gli impianti la società di gestione venne chiusa e fu dichiarato il fallimento. Nessuno rilevò gli impianti i costi di ammodernamento erano troppo elevati, e a parte gli habitué la maggior parte degli sciatori frequentatori di quella valle, si erano già diretti alle piste di Bobbio distanti solo pochi chilometri e da tempo dotate di nuovi impianti. Fu così che anche i rifugi in quota solitamente aperti anche d’estate furono costretti a chiudere non potendo garantirsi solo  quel breve periodo di attività guadagni sufficienti alla propria sopravvivenza. Per Giuseppe fu troppo, la vita gli aveva strappato uno dei suoi amori, ora degli avidi incapaci lo avevano privato anche di una parte delle sue montagne, proprio di quella parte che lui da anni percorreva a piedi o con gli sci, in quello che era diventato il suo santuario dei ricordi. Non avrebbe più potuto percorre quelle piste sciando solitario ed immaginando si sentire dietro il leggero sfrigolio della neve sotto gli sci di Angela,  non avrebbe più potuto sedersi lassù al rifugio sempre allo stesso tavolo, sfogliare quel menù che ormai conosceva a memoria guardare verso la sedia accanto quasi a voler chiedere, “E tu cosa prendi?” . No, questo era troppo, non gli avrebbero tolto anche quegli ultimi ricordi, non lo avrebbero privato dell’amore per quei luoghi, delle sue montagne, non gli avrebbero rubato quell’ultimo sogno. Fu così che quel giorno Giuseppe, detto il Bigia, decise di andarsene.

Malgrado la volontà e gli sforzi di alcuni la stazione sciistica di Artavaggio non fu più riaperta, in quanto considerato antieconomico il ripristino e la manutenzione degli impianti. Io ogni tanto torno da quelle parti, vado a sciare sulle vicine piste di Bobbio e alcune volte dagli impianti in alto, guardo giù a valle e mi sembra di scorgere due figurine che all’unisono si muovono con eleganza sulla neve, ciao Bigia.

                                                                                                          refusi

Ott 23, 2007 - racconti brevi    6 Comments

Ombre cinesi – a due mani

7dc5da41bd53df4fa25d4584aeedafba.jpg

 

 Ombre cinesi

…. dentro una scatola trovò la sua ombra. Non si era mai accorta di averla persa. Lo specchio rifletteva i colori della stanza e attraverso strani giochi di luce sentiva chiaramente i colori che la vestivano …. i colori respirano e vestono le giornate, ne era consapevole, ma proprio non si era mai accorta di aver perso una parte di lei ed ora nell’averla ritrovata provò un senso di vuoto. Senza ombre non ci può essere luce …. aveva vissuto nel buio

                                                                  Lesartists

a2a73cf722ec0ed71febd29464d8af0a.jpg

 

Ombre cinesi

… Aveva vissuto nel buio di un carillon, mentre mani bramose giravano la chiavetta per ascoltare una melodia… ma la musica del suo cuore mai l’avevano sentita. La ballerina del carillon girava su se stessa per non fissare lo sguardo in uno specchio che rifletteva la vita… E poi la scatola tornava a chiudersi e lei nel buio respirava i suoni ovattati che arrivavano dall’esterno… ma custodiva il suo canto e la chiave che apriva il suo cuore… perché, in fondo, odiava quelle mani bramose che volevano che suonasse per i loro capricci.

                                                                 Music.box

 

Set 25, 2007 - racconti brevi    15 Comments

Gran mercato delle carni

901c5afb36cd1418ddb8af473be37fd1.jpg La giornata è bella e calda, da un paio di giorni siamo entrati nell’autunno, ma oggi il tempo non lo da a vedere, la piazzetta del paese è ancora affollata di turisti, così anche noi ci accostiamo al terrazzo del bar e prendiamo posto ad un tavolino per il rito giornaliero del caffè pomeridiano. La terrazza è affollata per la maggior parte da turisti, tedeschi, inglesi, olandesi, americani, sì quest’anno il turismo da queste parti è aumentato ulteriormente. L’utilizzo a cui è stato destinato ultimamente il lago quale set cinematografico e la presenza sulle sue sponde di personaggi famosi, ne hanno diffuso l’immagine in parecchi luoghi del mondo contribuendo in modo notevole all’incremento del turismo. Ordino il caffè, e nell’attesa come sempre volgo lo sguardo attorno, osservando il panorama sempre uguale ma sempre diverso e  le variegate coppie di turisti divertendomi ad indovinarne dall’aspetto, dall’abbigliamento ma soprattutto dall’atteggiamento e dalle consumazioni i luoghi di provenienza.  Ci sono gli olandesi solitamente giovani coppie in maglietta, bermuda e infradito ai piedi, intenti a bersi la birra, i tedeschi in questo periodo ormai fuori stagione sono quasi tutti coppie di pensionati benestanti, gli uomini con la birra e le donne con l’immancabile cappuccino. Gli inglesi anche loro pensionati per la maggior parte ma distinguibili immediatamente per quel loro abbigliamento stile coloniale ed il cappello di paglia in testa di fronte al loro immancabile the pomeridiano e gli americani abbigliati come se di fronte a loro si aprissero le bianche le spiagge delle Haway. Sono tutto preso da questo mio abitudinario, quanto singolare passatempo quando ne vengo distratto da una nuova coppia in arrivo che cattura tutta la mia attenzione. Lui non è vecchio ad occhio e croce potrei definirlo attorno ai 40 anni, ma e piccolo grasso i capelli biondo sporco leccati all’indietro con della brillantina, gli occhi piccoli e cisposi a stento si scorgono infossati come sono sotto le pieghe del grasso del viso. Tutto in lui è volgare l’aspetto, l’espressione e come scoprirò fra poco anche il comportamento, i gesti e la voce. Indossa pantaloni bianchi sotto ad una maglietta anch’essa bianca che lo fascia come una pellicola aderente evidenziando in modo grottesco le larghe pieghe dell’adipe quasi fosse il budello di un salame insaccato. Scosta la sedia dal tavolino trascinandola, facendola stridere sul lastricato e facendo sobbalzare di soprassalto gli avventori seduti al tavolino accanto, poi  siede pesantemente facendo stridere ancora  la sedia metallica ma senza provocare nessun sobbalzo, gli avventori del tavolo accanto, in modo distaccato quasi indifferente si erano alzati in precedenza andando ad accomodarsi ad un tavolino lontano. Poi alza il braccio mostrando il copioso alone di sudore che sotto le ascelle impregna la maglietta, un braccio che ricorda la pubblicità di un cotechino, e di scatto in modo rumoroso ed imprevisto schiocca più volte le dita per richiamare l’attenzione del cameriere.
Lei, alta bionda capelli lunghi sciolti sulle spalle, occhi azzurro chiari, esile, pallida anzi no, eburnea, carina, anzi bella oserei dire, indossa una gonna beige al ginocchio, camicetta di uguale  colore e sandali cuoio, sembrerebbe uscita dalla vetrina di un negozio se non fosse per quel suo atteggiamento impacciato, quasi impaurito, si guarda attorno spaesata, esita a sedersi poi lo fa, adagio mantenendo la gambe unite sotto al tavolino con le mani sulle ginocchia a tenere l’orlo della gonna, vent’anni non di più. Nel frattempo arriva il cameriere, lui trasmette l’ordinazione, “Vodka”, il cameriere  si volge verso la ragazza  ma lei china il capo, contemporaneamente il gesto dell’uomo è eloquente, due dita alzate ed un movimento secco, come a dire vai ho già deciso io.  Il mio sguardo e fisso sulla ragazza, mi chiedo quali siano le ragioni i motivi che possano avere assemblato una copia così diversa e non me ne rendo conto ma il mio sguardo si sofferma a lungo sulla ragazza, l’attenzione che le rivolgo è decisamente eccessiva, lei se ne accorge, alza gli occhi dal tavolino mi guarda e forse legge dentro alla mia espressione quella che è la mia domanda, arrossisce e volge il viso verso terra, poi con un movimento del capo, gettando indietro i capelli, con un gesto improvviso, quasi di sfida,  torna spavalda a fissarmi. Imbarazzato le sorrido, cercando di dare al mio viso un espressione contrita,  cercando così di chiederle scusa per quell’eccessiva attenzione non richiesta, sì, credo che il messaggio sia giunto, sbatte le palpebre piega un attimo le labbra e volge gli occhi altrove. Anch’io, mi sforzo di guardare verso il lago, di distrarre la mia attenzione de lei e dal suo improbabile compagno,ma è un secco “Niet”,  pronunciato ad alta voce a farmi volgere nuovamente gli occhi verso quel tavolo per notare cinque wurstel allacciarsi come i tentacoli di un polipo attorno alla bottiglia di vodka, strapparla dalle mani del cameriere e posarla con violenza sul tavolo, per ripetere poi ancora quel gesto con la mano a mo’ di commiato. Mio malgrado mi vedo quasi costretto ad osservare quell’uomo che di seguito alza con la mano il bicchiere e ne  ingoia in un sol fiato il contenuto, indicando poi col dito l’altro bicchiere alla ragazza ed invitandola a bere, lei allunga la mano riluttante, solleva il bicchiere lo porta alle labbra chiude gli occhi e lentamente beve. Nemmeno il tempo di posare il bicchiere sul tavolo che il bianco pachiderma, afferrata la bottiglia riempie nuovamente i bicchieri facendone traboccare il liquido, ingoia il contenuto del suo e con un gesto imperioso indica alla ragazza di fare altrettanto. Disgustato pago il caffè e con mia moglie, mi allontano, non ho il coraggio di continuare ad assistere a quella scena, m’incammino così lungo il lago comunque senza smettere di pensare a quella ragazza,  senza smettere di chiedermi per quale ragione una ragazza come quella debba sottostare al volere di una persona cosi spregevole. Più tardi lungo la via del ritorno, incrocio ancora la strana coppia, che a bordo di una rossa Ferrari  F430 targata Montecarlo si allontana sul lungo lago.

Set 24, 2007 - racconti brevi    13 Comments

Vita

b5a87ada14b8ca7871d27d4e8b865ef8.jpg

 

E’ una storia iniziata nell’ormai lontano 19 marzo 1947,
e ancora, sto raccontandomi………………

                                                                         refusi

Set 21, 2007 - racconti brevi    18 Comments

Fotoromanzo

f13181a537422717ce6aab7a18e3715c.jpg

Prima striscia
Vignetta numero uno

Autunno, imbrunire, una strada di periferia, un marciapiede che costeggia la strada affiancato da un muro grigio, grigio come tutto quello che appare, anche le poche auto parcheggiate sui bordi, sono vecchie, stanche, sporche e grigie, grigie come quella giornata dove il sole ha perso la propria battaglia con la nebbia e dove neppure le foglie d’autunno decorano la via col loro bruno colore, gli alberi sono solo un ricordo lontano. La strada è deserta fatta eccezione per un gatto che lentamente si avvia verso dove……

Prima striscia 
Vignetta numero due

In fondo alla strada appare una figura, si avvicina a passo svelto, è un uomo che probabilmente rientra a casa dopo una giornata di lavoro, indossa una giacca un cappello e una sciarpa per proteggersi dalla prime avvisaglie di freddo. Nulla nei suoi pensieri, solo il desiderio di fare in fretta, di rientrare fra quelle quattro mura silenziose che chiama casa, ascoltare le notizie del telegiornale alla televisione, prepararsi una cena calda e veloce per sdraiarsi poi sul divano chiudere gli occhi e sognare una vita diversa.

Prima striscia
Vignetta numero tre

Un rintocco di tacchi che battono ritmicamente sul lastricato, affrettati, nervosi, si intendono quasi in simultanea dalla direzione opposta. E’ una donna, cammina rasente il muro, la figura avvolta il un soprabito, i capelli sciolti sulle spalle, ha gli occhi bassi, fissi verso terra. quasi fosse intenta a leggere invisibili parole tracciate sul lastricato del marciapiede. Anche lei da l’impressione di avere lasciato da poco il lavoro, e che stia rientrando a casa, ripetendo instancabilmente la routine di tutti i giorni.
Seconda striscia
Vignetta numero uno

Quel rumore di passi che giunge improvviso e distinto alle orecchie distraggono l’uomo dai propri pensieri, lo sguardo prima perso nel grigiore o all’inseguimento di un remoto pensiero, volge verso il rumore. Una donna, ne scorge la figurina ancora lontana, avanza verso di lui lungo la strada e quel pensiero perso nel grigio per un’arcana ragione ora si addentra nella fantasia, ci si perde e immagina. Immagina un volto carino,  due occhi vivaci, due labbra sorridenti ed una voce gentile che risponda al saluto.

Seconda striscia
Vignetta numero due

Anche la donna ha scorto l’uomo, istintivamente il suo passo rallenta, un brivido la percorre, il pensiero di alcuni spiacevoli fatti di cronaca recentemente accaduti le attraversano la mente, volge lo sguardo attorno alla ricerca di altre eventuali presenze, nessuno, la tentazione di traversare la strada è forte, ma si trattiene, si sforza di scorgere per quanto le sia possibile data la lontananza i lineamenti dell’uomo e prosegue nel suo cammino.

Seconda striscia
Vignetta numero tre

Ora la donna si è fatta più vicina, è l’uomo riesce a vederla in viso, bruna sui trent’anni, bella a suo modo di vedere, la osserva cercando di dare al proprio volto un espressione distaccata, pensosa e di mantenere lo sguardo fisso come se stesse osservando qualche cosa oltre, e sogna. Sogna il saluto e una stretta di mano, sente la sua voce proferire distratta un invito a fare due passi assieme, prendere un caffè e scambiare due parole per chiudere quella giornata in un modo diverso e magari aprire le prossime in un modo diverso. Sente la voce di lei rispondere affermativamente e si vede prenderla sotto braccio per andare altrove, fuori dal grigio……….

Terza striscia
Vignetta numero uno

Il volto dell’uomo ora le è visibile, è giovane, ben messo, con  l’espressione distratta di chi stia rimuginando i propri pensieri, o si sia perso lungo altre strade e questo la rassicura. Così cercando di non darlo a vedere continua ad osservarlo mentre le si avvicina, e nella sua testa ora si affacciano ipotesi più tranquillizzanti. Immagina che l’uomo la saluti e che le sorrida, immagina poi che con una qualche scusa cerchi di instaurare una conversazione, che la inviti a bere qualche cosa prima del rientro a casa, per rendere quella giornata diversa, per andare oltre il grigio,  per entrare nel colore…….

Terza striscia
Vignetta numero due 

L’uomo ora e quasi all’altezza della donna, ma il suo sguardo rimane fermo, fisso su un’inesistente direttiva, perso all’inseguimento del sogno, incapace di provare a renderlo realtà. Le labbra serrate in un espressione annoiata ed indifferente stroncano quel tentativo di saluto che la mente aveva immaginato, soffocandolo sul nascere, i suoi occhi per un solo istante si ribellano, si fissano per un piccolo attimo fuggevoli sul volto della donna, ma è solo un attimo e poi immediatamente tornano a fissare il vuoto quasi che quel piccolo, istintivo gesto gesto sia stato troppo doloroso.

Terza striscia
Vignetta numero tre 

Ora le è quasi di fronte, lei vorrebbe guardarlo in faccia regalargli un sorriso, è questo e quanto avviene, ma solo nel suo pensiero, visto che il suo capo si abbassa se possibile ancora di più, che le sue labbra si stirano in un espressione altera, che i suoi occhi tornano a rincorrere, invisibili parole tracciate sul marciapiede, ed è già oltre.

Quarta striscia
Vignetta numero uno 

Il ticchettio dei passi ora è alle spalle e piano piano si allontana, all’uomo sembra di intendere in quel ritmo un rallentamento, un indugio, con uno sforzo vincendo le sue paure, cercando disperatamente di dare una speranza al sogno si volta augurandosi che anche la donna abbia compiuto lo stesso gesto, ma scorge solo una figurina di spalle che piano si allontana, ed il sogno lentamente si spegne ed  il pensiero si perde lungo sentieri divenuti nuovamente grigi.

Quarta striscia
Vignetta Numero due

Quasi con disappunto, ascolta i passi dell’uomo allontanarsi alle sue spalle, in un ultimo tentativo di ricreare quella speranza senza rallentare il passo si volge, chissà forse anche lui si girerà per osservarla, anche lui forse…. no, scorge solo una figura di spalle che a passo spedito ora si allontana, raddrizza la schiena, scuote il capo, già perché poi avrebbe dovuto accadere perché proprio in quell’attimo, perché proprio lì, ed anche l’ultima illusione si allontana portandosi appresso il colore.

Quarta striscia
Vignetta numero tre

La strada è tornata deserta, si è persa persino l’eco del rumore dei passi, le sera che scende ora ne nasconde  il grigiore, solo un gatto annoiato lentamente ritorna da dove……………

                                                                  

                                                                                

Set 19, 2007 - racconti brevi    22 Comments

Purga

seconda parte

9f5a32f390019da580837229a50430a5.jpg

L’accompagno all’albergo a ritirare la valigia la sistemiamo nel bagagliaio ( a fatica) poi via verso Como e in  una ventina di minuti, dopo avere superato senza intoppi la dogana, salvo qualche commento poco felice dei doganieri di turno, raggiungiamo la città. Fa caldo e la gente è tutta  fuori, pertanto impieghiamo quasi lo stesso tempo per trovare un parcheggio libero, poi ci incamminiamo lungo le strade affollate. Ormai sono le undici, ed il mio stomaco comincia a brontolare, si perché come mi succede di questi tempi dopo avere lasciato l’ufficio scendo in città senza cenare, per poi mangiare quando mi capita in qualche ristorante, pizzeria o paninoteca. Così le chiedo se per caso non le vada di mangiare una pizza, l’espressione che le si dipinge sul viso è la più eloquente delle risposte, la prendo sotto braccio e la trascino verso il Don Lisander, ristorante pizzeria che si trovava nelle immediate vicinanze del luogo e ci accomodiamo ad un tavolo. Pizza margherita per me, come sempre, trovo sia la migliore quando la pizza è buona, pizza quattro stagioni per lei, poi la domanda e da bere? Mi guarda e mi sorride con aria sbarazzina e furba, siamo in Italia, dice, se non ti spiace vorrei bere del vino, nessun problema e così passo le ordinazioni, pinot grigio, a quel tempo era il mio preferito e lo è ancora anche se a pari merito con molti altri. Aspettando le pizze viene servito il vino e l’acqua minerale, le verso un bicchiere di vino, lei lo porta alle labbra  lo assaggia, “Gut, shone” esclama, poi mi guarda mi strizza l’occhio e traduce, “C’est bon, merci, bravò” La sala è affollatissima, l’attesa è lunga, così parlando e raccontandoci a vicenda ci rendiamo conto che la bottiglia di vino ha esalato l’ultimo respiro e la pizza non è ancora arrivata, non mi resta che ordinarne un’altra. Sono quasi tre ore che stiamo parlando, abbiamo preso un gelato assieme, siamo seduti al tavolo in attesa di una pizza abbiamo finito la prima bottiglia di vino e ancora non so come si chiama,  è strano vero? Ma a me alcune volte succede, come se i nomi in certe occasione non abbiano nessuna importanza, ma decido di presentarmi le dico il mio nome e le chiedo il suo,  sorride e …………..Purga….. é quanto suona alle mie orecchie. Giuro, solo il vino che stavo sorseggiando e che improvvisamente parte per la tangente, causandomi un furioso scoppio di tosse, impedisce che lo scoppio divenga , forse  anche a causa della leggera euforia uno scoppio incontrollato di risa. Mi guarda stupita per un attimo io le spiego che distrattamente ho ingerito il liquido di traverso e lei mi sorride rassicurata, nel frattempo le pizze sono arrivate ed iniziamo a mangiare. Lasciamo il ristorante che è quasi l’una, e ci incamminiamo sul lungo lago, la maggior parte della gente ormai se n’è andata, solo pochi gruppetti si attardano ancora lungo la riva o ai tavolini dei bar,  camminiamo lentamente a braccetto ed io sono contento che ormai non ci sia quasi più nessuno, visto che lei con i tacchi mi sopravanza di qualche centimetro. Camminiamo costeggiando il lago mentre l’ascolto raccontarmi quella che è la sua vita a Basilea, studentessa, iscritta all’università, chimica mi dice, già, come potrebbe essere diversamente visto il luogo dove abita?  Camminando siamo giunti all’altezza dei giardini pubblici a lato della diga foranea che si inoltra per un centinaio di metri nel lago sino a giungere quasi di rimpetto alla piazza Cavour, piazza centrale di Como affacciata sul lago. C’incamminiamo lungo la diga mentre lei mi confida che ama la musica romantica e che la sua canzone preferita è La vie en rose, e dolcemente inizia a sussurrarne le note  fra le labbra. Cosa non ti fa fare il vino, ti libera dai pensieri e dalle angosce e soprattutto dalle paure, immediato è l’inchino e il baciamano, la prendo fra le braccia è danziamo, seguendo il lento mormorio della melodia che le esce dalle labbra. Se qualche nottambulo sulla riva avesse in quel momento guardato verso il lago avrebbe scorto due silouette ondeggianti che dolcemente danzavano al suono di un immaginaria  melodia sotto i raggi della luna. La risata che le sgorga delle labbra è contagiosa e così ci fermiamo ansanti, mi guarda negli occhi, mi stampa un bacio sulla fronte, poi mi dice, che è stanca vorrebbe riposare almeno un poco prima di partire, sono le due di notte e mancano ancora sette ore alla partenza del treno,  il sorriso si attenua, lo sguardo si fa buio e si abbassa verso terra, “Chez toi……..” le esce in un sussurro. Il suono della sveglia ci scuote dal sonno, ci stropicciamo gli occhi e ci guardiamo in faccia ancora assonnati, non abbiamo riposato molto, il mio saluto è un enorme sbadiglio, il suo è un sorriso, “ Merci, mi dice, grazie a te io avrò molte cose da raccontare al mio ritorno e un bellissimo ricordo dell’Italia”.
Non c’è tempo per la colazione,  via di corsa per non perdere quel treno che dalla stazione di Como parte alle 8.30, per fortuna a quell’ora i parcheggi sono ancora disponibili, scarico la valigia l’accompagno al binario, giusto in tempo il treno è già lì in attesa, un saluto veloce un sorriso e ancora una volta un veloce bacio sulla fronte, forse solo perché giusto all’altezza delle sue labbra, poi la vedo salire,  un ultimo saluto, un cenno di mano, ciao arrivederci………………Già arrivederci, la sensazione che quel momento non avrebbe mai potuto finire, poi la fretta per non farle perdere il treno, beh mi avevano fatto scordare la cosa più ovvia, mi ero dimenticato di chiederle l’indirizzo.  A settembre, a Monaco in compagnia di Gunther, agente per la Germania, mentre visitavamo la fiera mi venne da chiedere cosa significasse in tedesco quel nome , Purga, lui mi guardò sorpreso e mi rispose di non averlo mai sentito, e che probabilmente come accadeva in alcuni casi il nome aveva analogie locali e poteva essere diffuso solo in determinate regioni e che con ogni probabilità  grammaticalmente doveva essere scritto con la ph, Phurga e che la corretta pronuncia avrebbe dovuto essere Furca. Addio Purga o  Furca, come sospettava si chiamasse Gunther, sei rimasta solo un bellissimo ricordo e come tale non finirai mai di esistere. Rammento anche lo sguardo stupito di alcuni infermieri, che nel corso della mia vita in occasione di un paio di interventi, mentre si avvicinavano al letto facevano sfoggio sul volto della più classica delle espressioni sadiche  mentre annunciavano, “ Si prepari, è il momento della purga”, sorpresi di vedere apparire sul mio volto un espressione sognante ed un ancora più sognante sorriso.

                                                                                                              refusi

 

Set 18, 2007 - racconti brevi    8 Comments

Purga

parte prima

3cd92807c5f219908d298f51869ca643.jpgDa tempo dopo la separazione sto cercando di riprendere una vita normale, riallacciare le amicizie, riprendere a frequentare i luoghi che mi avevano visto presente prima del matrimonio, ma non è semplice, gli anni sono trascorsi e non solo per me ma anche per gli altri, anche i vecchi amici si sono sposati e lo sono ancora, con mogli e figli a carico non frequentano più quei posti, ma rimangono tranquilli a casa oppure escono per delle passeggiate, con mogli e figli al seguito. Certo so che esiste ancora un piccolo gruppo di scapoli impenitenti, ma è tanto tempo che non ho più occasione di incontrarli e sono sempre stati difficili da rintracciare. Improvvisa l’illuminazione, è luglio le sere sono calde, guardo l’orologio, sono le 20.30 e penso, Lugano, sì, dove se non Lugano, la Svizzera non ha ancora adottato l’ora legale, pertanto ho tutto il tempo per giungere sul luogo nell’ora migliore, per gettare uno sguardo agli ambienti abitualmente frequentati ai miei tempi, e spero ancora adesso. Dopo circa mezz’ora sono sul posto e  alla ricerca di un parcheggio, costeggiata la piazza del Federale, mi ritrovo sul lungo lago, in colonna, strano a quest’ora non c’è mai molto traffico, alcune macchine targate Varese, la maggior parte targate Como e vanno a passo d’uomo. Una Porche Carrera blu cabrio, un Alfa Romeo Montreal arancio, una Jaguar verde inglese, un pagodino decappottabile verde metallizzato, sorrido, conosco queste macchine e so cosa stanno a significare, caccia! Non sono in condizioni di pormi in concorrenza, il mio maggiolone cabrio blu yogurt con capote nera è simpatico, ma non è all’altezza della situazione, e poi da tempo ho perso l’abitudine a questo genere di cose, ne sono divenuto estraneo. Comunque sono lì in colonna e non posso fare a meno di osservare ed ad un certo punto la scorgo, si deve essere lei il fulcro di tutta quell’attenzione. Biondi corti riccioli le coprono il capo, una camicetta rosa annodata in vita sopra ad un paio di short bianchi che fasciano un posteriore decisamente  notevole posto sopra due gambe lunghe fasciate in calze nere autoreggenti stretti sulle cosce, ed il tutto ondeggia nella camminata sopra due sandaletti bianchi a tacco alto. Sì penso, la fila è giustificata mentre lei, forse infastidita dai fischi di apprezzamento provenienti da alcune auto cambia improvvisamente direzione, si volge torna indietro e affretta il passo, anche il viso è all’altezza del resto, tedesca penso, quasi certamente, viene nella mia direzione,  inconsapevolmente le sorrido e la saluto con gesto della mano. Si blocca, si guarda attorno e poi non so per quale ragione si dirige verso la mia macchina, improvvisamente mi sono fermato, lei apre la portiera e sale, si siede e mi guarda, sotto un trucco un po’ troppo pesante il volto è quello di una ragazzina spaventata, ed è una ragazzina scoprirò poi, solo 19 anni,  trema quasi, “ Warum? “ è la sua domanda, perché, già perché. Come immaginavo, e io non conosco il tedesco a parte il già citato warum, gut, kartoffen, genau, e poco altro ancora, provo a chiedere se parla inglese, non che migliori di molto la cosa ma qualche parola in più riesco a spiccicarla, scuote la testa in modo negativo, poi mi spiega in modo stentato, che è svizzera di Basel, Basilea,  si ma fa anche Baal, forse sono stato fortunato, la città  non è solo sul confine con la Germania ma anche con la Francia e quasi tutti i basilesi anche se in modo meno corretto del tedesco, loro lingua madre, parlano anche il francese, glielo chiedo, la risposta e un largo sorriso che gli rasserena il viso ed un  “Oui” pronunciato con sollievo. Nel frattempo ho rimesso in moto, e raggiunto il rondò posto poco più avanti compio un inversione di marcia incrociando così in senso opposto quella fila di auto che avevano costituito in precedenza il corteo, facce curiose si sporgono ad osservare, alcuni mi riconoscono sorridono e salutano col pollice alzato, sono i comaschi, che con un colpo di clacson si allontanano accelerando,  il gioco è finito e solo qualche varesotto, insiste a tallonarmi con l’auto, poi resosi conto che la partita è definitivamente persa, si allontana. Nel frattempo le chiedo se vuole prendere qualche cosa, un gelato, un caffè, mi risponde sorridendo sì un gelato va bene, sembra tranquillizzata ora, supero il Kursal e raggiungo il parcheggio che si trova dietro ai giardini pubblici, sistemo l’auto scendiamo e ci addentriamo nel parco verso il chiosco che proprio sulla riva del lago produce e vende ottimi gelati. La guardo e le chiedo per quale ragione abbia scelto di salire sulla mia macchina, mi sorride e la sua risposta è semplice “ Hai un sorriso gentile”. Seduti al tavolino iniziamo a parlare un po’ di tutto, il suo francese è scolastico ed appunto per questo di facile comprensione, il mio si è affinato in anni di rapporti di lavoro e  molte volte sono in difficoltà ad affrontare argomenti di comune conversazione. Mi racconta di essere a giunta Lugano al servizio di una famiglia Bernese, che ha scelto di trascorrere prima a Saint Moritz e poi qui le proprie vacanze, in qualità di baby sitter. Mi racconta che in quei 15 giorni non ha mai avuto un giorno di libera uscita e che, ora che la famiglia presso la quale era impiegata è rientrata, lei si è trattenuta ancora un giorno, per visitare Lugano, ma che il suo desiderio sarebbe stato quello di visitare l’Italia, visto che era questo che si era ripromessa di fare quando era partita, era quanto aveva entusiasticamente raccontato alle proprie amiche prima di partire ed era quanto si accingeva a fare nel pomeriggio, dopo avere lasciato l’albergo, ma che purtroppo non aveva potuto fare incapace di organizzare in così poco tempo anche una breve gita e che le dispiace molto, perché lei in Italia avrebbe voluto andarci, anche solo per pochi attimi, anche solo per pochi metri per poter raccontare al rientro di esserci stata. Ora, dice non le sarà più possibile, dovrà rientrare in albergo a prendere la valigia lasciata in deposito visto che non ha più la camera, e recarsi alla stazione dove aspetterà tutta la notte nella sala d’attesa quel treno che alle 9 del mattino partirà per riportarla a casa. La guardo, mentre col cucchiaino pulisce il fondo della coppa del gelato, ha la faccia di una bambina imbronciata, delusa per non avere potuto realizzare quel desiderio che è stata la sola ragione per la quale aveva accettato il lavoro. Guardo l’orologio sono le 22, in Italia naturalmente visto che qui sono ancora le nove di sera, un pensiero mi attraversa la mente, perché no mi dico, è venerdì sera e l’indomani non ho assolutamente nulla da fare, così glielo chiedo, gli chiedo se quelle notte che lei dovrebbe  trascorrere in sala d’attesa preferirebbe trascorrerla girando per le strade di Como, così al rientro avrebbe potuto raccontare alle amiche di essere stata in Italia, le spiego che con l’auto e con  l’autostrada per realizzare quello che è il suo desiderio occorrono solo pochi minuti, una ventina non di più. Mi guarda sorpresa, forse non si aspettava questa offerta, è titubante vedo,  sta pensando se accordarmi o meno la sua fiducia, poi di scatto si alza dalla sedia facendo traballare il tavolino ed un sorriso le si allarga sul viso, sì, dice, andiamo, andiamo….
                                                                                              refusi
                                                   
                                                                                                (segue)
                                                       

Set 12, 2007 - racconti brevi    4 Comments

fantascienza

a2ecb74a118be2e4661e530e606fb033.jpg

Io ci sono capitato per caso da quelle parti, è successo tanto tempo fa, mi sono imbattuto nel primo romanzo di fantascienza dopo aver rimbalzato per tanti anni attraverso la letteratura mondiale dell’epoca, quando stanco ed annoiato da letture che parevano ripetersi similmente eguali in ogni sfumatura, sono capitato sul mio  primo romanzo fantastico, ed è stato amore a prima vista, un amore ricambiato nel corso di tutti questi anni, certo c’è stata anche qualche delusione, ma quale amore non ne causa? Un amore privato e geloso, difficile da spiegare a chi alla fantascienza non si è mai accostato considerandola un genere di seconda categoria. Non starò  ha spiegare a quanti la pensano in questo modo come possano sbagliarsi non avrebbe senso, mi limiterò a dire che la fantascienza è un genere complesso e vario e che abbraccia diversi filoni narrativi ed al tempo stesso per nulla facile e che chi scrive di fantascienza deve essere culturalmente preparato in parecchi campi cosa che non succede nella letteratura normale. Beh se mi chiedete a cosa è dovuto questo elogio alla fantascienza ,  è che per caso conversando in forum con un’amica ho scoperto non solo, come anche lei amasse questo genere di letteratura, ma che in passato si era anche cimentata nella stesura di un racconto. La curiosità è stata grande e la richiesta di prenderne visione immediata, ora dopo averlo letto ed avendolo trovato non solo interessante ma anche scritto bene desidero pubblicarlo, con l’autorizzazione dell’autrice naturalmente. Ho sempre considerato i romanzi di fantascienza come complesse favole per adulti perché la nostra vita è una favola e necessita quasi sempre del sogno, perché…………………

                                    il mondo non esiste il mondo non è vero
                                  
 niente ha più realtà del sogno…………

                                                                          roberto vecchioni

      refusi

APPUNTAMENTO

NEL PARCO

8987ead38678bdf400fdff56aa5f405c.jpg 

Era lì, davanti a me, con l’aria di chi volesse interrogarmi.

Mi osservava insistentemente, chiuso nel cappotto logoro, mentre io facevo di tutto per cercare di ignorarlo.

Non avevo idea di quanto tempo avesse passato ad osservarmi, tuttavia mi pareva di essere lì da un’eternità e non l’avevo visto arrivare. Mi mossi a disagio, sulla panchina di legno verde dura come il marmo. Poi ricambiai sfacciatamente il suo sguardo, ma lui non battè ciglio. Così fui io a fare la prima domanda. “Che hai da fissarmi a quel modo?” “Sei strano”, fu la risposta, e io per poco non gli scoppiai a ridere in faccia. Era il tipo più incredibile che mi fosse mai capitato di incontrare: dimostrava almeno cinquant’anni, la sua faccia e le sue mani erano ricoperte da vari strati di sporcizia, i suoi capelli erano così unti da far pensare che li avesse lavati con del lubrificante per motori e indossava dei vestiti che dovevano essere già vecchi quando era giovane mio nonno. E aveva l’impudenza di dire a me che ero strano. Stavo per mandarlo al diavolo, quando fui colto da un pensiero terribile: e se avesse avuto ragione? D’istinto mi guardai le mani, i vestiti, le scarpe. La loro apparente normalità e il fatto che fossi perfettamente pulito non mi tranquillizzarono affatto, e il mio sguardo spaziò tutt’intorno, alla ricerca della stonatura che la mia mente cominciava già ad avvertire. Osservai con apprensione il viale di terra battuta che ci separava, le panchine verdi meticolosamente distanziate fra loro, gli alberi frondosi che quasi nascondevano il sole, e tornai a fissare il barbone di fronte a me con occhi nuovi. Non aveva torto, dopotutto: che diavolo ci facevo io, pulito e benvestito, seduto sulla panchina di un parco? E, già che c’ero, non dimenticai di pormi la domanda fondamentale: chi diavolo ero, io?

“Le pulsazioni sono in leggero aumento. C’è un aumento di intensità anche nello schema mnemonico, ma l’oscillatore è ancora stabile.” “Bene. Gli inietti un calmante prima che raggiunga la soglia critica: non intendo perderlo anche stavolta” “Tentiamo un ripristino forzato?” “Il rischio di un altro shock è troppo elevato: potremmo provocare un rigetto della matrice.” La voce divenne un sussurro.  “Forza, Johansen, adesso dipende da te.”

Il mio nome è Nico De Salvo. Così affermavano i documenti che trovai nella tasca posteriore dei pantaloni. Sono di nazionalità portoghese. Ho trentadue anni. Sono alto un metro e ottantadue. Ho i capelli neri e gli occhi verdi. Malauguratamente non avevo uno specchietto con me, per controllare se la mia faccia somigliava o no a quella sulla carta d’identità. In ogni caso, avevo problemi ben più gravi da risolvere. Lo sconosciuto di fronte a me continuava a fissarmi con l’aria meditabonda. Non avevo la forza di dirgli nulla. Lui sorrise con aria complice e tirò fuori dalla tasca del cappotto una bottiglia avvolta in una pagina di giornale. “Un altro goccetto?”, chiese cordialmente. Ebbi un moto di stizza. Pensava forse che fossi un ubriacone? “Non bevo a quest’ora del giorno”, risposi con astio. E subito dopo controllai l’orologio. Diceva che erano le tre e venti del pomeriggio. Sentivo che questo avrebbe dovuto suggerirmi qualcosa, ma i miei pensieri erano ormai una pulsazione dolorosa che mi martellava la nuca e le tempie. Mi tenni la testa per un lungo minuto, obbligandomi a riordinare le idee. Solo che non me ne veniva nessuna. “Non temere”, disse l’individuo che avevo di fronte cercando di rassicurarmi. “Ti passerà. Passa sempre.” Gli rivolsi uno sguardo omicida. Perché diavolo non mi lasciava in pace? Perché non se ne andava a casa, dovunque fosse? E perché mai, con tante panchine a disposizione, si ostinava a restare seduto proprio su quella? Fu come se mi avesse letto nel pensiero. “Se non ti piace la compagnia”, commentò alzando la bottiglia, “perché non te vai da un’altra parte?” Rimasi sconcertato a fissarlo, mentre lui beveva un lungo sorso di quella roba. Perché? Perché non sapevo dove andare, ecco perché! Perché sulla mia carta d’identità quella riga era semplicemente vuota! Vuota! Vuota come la mia testa, se si esclude il tipo col martello pneumatico che da un po’ ci abitava dentro. Lo maledissi con tutte le mie forze, mentre quello, indifferente, continuava a martellare, a fare buchi sempre più larghi e più profondi, fino a ridurre a brandelli il mio senso dell’humour. E la mia lucidità. “Devi avere un bel problema, amico”, stava dicendo il barbone. “O un pessimo carattere. Quale delle due?” Ero di nuovo lucido, come se il tipo col martello avesse traslocato. Alzai la testa, sospirando. “Non prendertela, eh, ma forse ti farebbe bene parlarne.” Invece di rispondere gli rivolsi lo sguardo che meritava. “Senti, non ho detto di essere uno psicologo”, si giustificò lui alzandosi. Venne verso di me trascinandosi dietro la bottiglia, e mi si sedette accanto. “Ho detto solo che dovresti parlare dei tuoi problemi con qualcuno.” Si guardò intorno con fare teatrale, allargò le braccia e si girò verso di me, sorridendo. “Ma qui ci sono solo io!” Ricevetti in piena faccia una zaffata d’alcool puro. Abbassai la testa per evitare di portarmi la mano al naso e fargli così capire cosa ne pensavo della sua offerta. Lo sguardo mi cadde sul foglio di giornale che avvolgeva la bottiglia, e la notizia che vi era riportata mi provocò un brivido che non riuscii a spiegarmi. “Interessato alle notizie?”, chiese lui, affabile, e mi porse il foglio consunto. La bottiglia se la tenne ben stretta. “Brutta storia”, commentò ammiccando verso la pagina sgualcita. “Quelli della Transluna stavolta l’hanno fatta grossa. Il governo minaccia di sospendere il Progetto.” Transluna. Il Progetto. Parole che solleticavano la mia memoria. Diedi una rapida scorsa all’articolo. Riferiva di un incidente sulla Luna, durante i lavori di costruzione della linea sotterranea che avrebbe dovuto collegare le stazioni Selene I e Selene II: un tecnico morto, tre gravemente feriti, numerosi macchinari distrutti. I lavori erano stati sospesi in attesa di accertare le cause del disastro. Un danno che si esprimeva in una cifra con tanti di quegli zeri da risultare impronunciabile. “La costruiranno, la loro città lunare”, commentò il tipo accanto a me. “Hanno speso troppi soldi.” “E’ una cosa terribile”, dissi, senza capire perché il pensiero di quella gente mi addolorasse tanto. “Non come può sembrare”, commentò lui. “Ogni grande impresa ha un prezzo, e quasi sempre lo si paga in vite umane.” Rimasi a fissarlo stupito per qualche istante: non mi aspettavo pensieri così profondi da un barbone sporco e stracciato. A dirla tutta, fino a pochi minuti prima non immaginavo nemmeno che avrei iniziato con lui una conversazione qualunque. “E secondo te è un prezzo equo?” gli chiesi. “Non c’è equità, quando alcuni pagano più di altri.” Ero più confuso che mai: le mie orecchie ascoltavano parole che facevano a pugni con quello che vedevano i miei occhi. Ammisi con me stesso che l’avevo giudicato male, certo per stupidi preconcetti che attribuivano l’intelligenza e la profondità d’animo solo a certe categorie di persone. Era davvero singolare che fosse seduto accanto a me, pensatore in incognito, proprio nel momento in cui avevo più bisogno di qualcuno che mi aiutasse a pensare. “Com’è che controllavi il portafoglio?”, chiese lui cambiando discorso. Decisi di dirglielo, per evitare malintesi. “Cercavo la mia carta d’identità. In questo momento la mia memoria è in vacanza: non mi ricordo un bel niente.” “Lo dicevo io che avevi un problema. Beh, la mia offerta è ancora valida: ti offro la mia spalla per piangerci sopra.” “Perché?” “Sai, non ho fatto molta conversazione, ultimamente.” “Non parli come un barbone. Chi sei, in realtà?” “Lo spirito del parco, e quella panchina è la mia casa”, ribattè lui in tono stizzito. “E adesso che lo sai, torniamo a chi sei tu. Prova a pensare: secondo te, perché sei qui?” Era un ottimo psicologo, contrariamente a quanto asseriva. “Beh, ho la sensazione di avere un appuntamento.” “Su una panchina pubblica? Allora è una donna. Come si chiama?” Stavo quasi per dirgli che non me lo ricordavo, quando un flash attraversò la mia mente: una ragazza di circa ventisei anni, lunghi capelli neri, occhi scuri, un sorriso radioso. Veniva verso di me, camminando con passo leggero lungo il viale alberato, e agitava la mano destra in segno di saluto. Le mie labbra formarono un nome, e io lo ripetei ad alta voce, incantato. Sara. “Magnifico”, disse il mio novello psicologo. “E magari questa era la vostra panchina. Pensaci: questo posto non ti ricorda nulla?” Sembrava che le sue parole fossero la chiave per liberare i miei pensieri. Brandelli di tenebra scivolarono via, e schegge di ricordi mi aggredirono simultaneamente. Sara. Le nostre telefonate. Il nostro appuntamento pomeridiano. Le lunghe passeggiate nel parco. Sara che mi viene incontro sorridente, lungo il viale alberato. Mi bacia e mi abbraccia, e mi tiene teneramente la mano, mentre parliamo, e parliamo, seduti vicini, su questa stessa panchina. Mi racconta la sua giornata, i suoi pensieri, i suoi dubbi. Mi parla del nuovo lavoro. b5b48793ea617ce22a0e68c18feed513.jpgIl lavoro che la porterà lontano, sulla Luna. “Ehi, qualche problema?” “No”, risposi confuso. “E’ solo… un ricordo.” Un ricordo che andava sviluppandosi col passare dei secondi. Sara fu destinata a base Selene I. Il suo lavoro di operatore specializzato l’avrebbe trattenuta sulla Luna per svariati anni, ed era talmente entusiasta di partecipare all’ambizioso Progetto Città Lunare, che non ebbi il coraggio di chiederle di rinunciare.

Ma non potevo restarle lontano per tutto quel tempo, così feci domande su domande, esami su esami, finché non risultai psicologicamente idoneo, e non venni assunto anch’io dalla Transluna Company. Fui assegnato alla sua stessa base.

Mi premetti le tempie, cercando di ricordare di più, e i ricordi non si fecero attendere. “Ero un C-M” dissi, tra me. E notando l’espressione indagatrice del mio compagno, mi affrettai a spiegare: “Un cervello per macchine. In pratica il mio lavoro consisteva nel guidare una specie di trattore con otto braccia meccaniche, che faceva da spola all’interno della sotterranea e serviva per riparare i guasti degli escavatori.  Solo che, se avessi dovuto guidarlo dall’interno, sarebbe stato troppo grosso per passare tra le pareti delle gallerie e tutti i macchinari che c’erano dentro, e certo non avrebbe potuto arrampicarsi sopra gli escavatori. Così lo guidavo da una cabina esterna: indossavo il mio visore, i miei guanti, ed ero collegato col trattore. Io mi muovevo in una specie di paesaggio virtuale, e la macchina faceva quello che facevo io. E’ un po’ come essere un uomo meccanicizzato.”
“Allora, se hai lavorato alla sotterranea, forse eri presente all’incidente”, disse lui. “Quel giornale è di dieci giorni fa.” Per un secondo mi chiesi come era possibile che la sua bottiglia di liquore fosse la stessa da ben dieci giorni, ma fu solo per un secondo. L’attimo dopo la mia testa esplose in un lampo di cupo dolore, e io seppi chi ero, e cosa avevo fatto.

“L’oscillatore è impazzito!” “Stabilizzare! Congelate le pulsazioni! Dov’è quella siringa? Infermiera!” “Lo stiamo perdendo!” “Ossigeno!”, pretese la voce più autorevole. “Staccate la matrice! Staccate quella dannata matrice!” “ Soglia critica”, comunicò una voce femminile. “Gli inietti un’altra dose di calmante”, replicò la voce autorevole. “Situazione dello schema mnemonico?” Ci fu un attimo di costernato silenzio. Poi un’altra voce rispose: “Oscurato.” “Niente panico: abbiamo ancora un paio di minuti. Riavvolgete la matrice fino al punto di shock. Tentiamo di ripristinare l’ultimo schema coerente. Qualcuno resetti l’oscillatore. Pronti? Ripristinare!”

Mi sembrava di impazzire. Balzai in piedi, gridando come un forsennato. Ero stato io. Era stato lo stupido trattore. Qualcosa nel suo cervello, o forse nel mio, era andato improvvisamente fuori fase, e le braccia meccaniche avevano cominciato a colpire tutto quello che era a portata di mano: i cavi di alimentazione, il generatore, l’impianto di aerazione… e il piccolo trattore grigio accanto a me. Il trattore di Sara. “De Salvo, calmati!”, gridò Johansen, ritto accanto a me, nel logoro cappotto. “Fermati! Siediti! De Salvo, smettila: non è stata colpa tua, non sei stato tu!” Mi strattonò finché non riacquistai il controllo. E allora piansi, piansi a lungo, disperato. “Ascoltami”, diceva Johansen, mentre una piccola parte del mio cervello lo riconosceva “Il peggio è passato. Siamo stati costretti a farti ricordare l’incidente perché tu potessi superare lo shock causato dalla morte di Sara. Il computer che ti collegava al trattore ha causato l’incidente: tu non potevi far nulla. Tu eri solo intrappolato lì dentro, e Dio solo sa cosa abbiamo dovuto fare per tirarti fuori dalla cabina di controllo senza mandarti in pappa il cervello. Mi capisci? De Salvo!” Ero stato io. Io ero lì, io vedevo tutto. E le braccia del trattore erano le mie braccia. Io avevo scollegato all’improvviso il cervello di Sara dal trattore. Io l’avevo uccisa. Ero stato io. “Lei era tutta la mia vita”, balbettai. “E io l’ho uccisa.” Johansen scosse la testa. “E’ stata una disgrazia. Cerca di farti forza, De Salvo. Ora dobbiamo uscire da qui.” In un attimo di lucidità compresi cosa voleva dire: in realtà, noi non eravamo lì.  Probabilmente io ero in un letto d’ospedale, collegato a un computer che possedeva una matrice con la registrazione di tutti i miei ricordi, e qualcuno stava cercando di ripristinarli. Ma Johansen? Che ci faceva lui, lì?
Di nuovo, sembrò leggermi nel pensiero. “Il tuo schema mnemonico era intatto, e avevamo una registrazione dei tuoi ricordi risalente a soli due giorni prima dell’incidente, così abbiamo tentato di ripristinarli. Ma la matrice si è bloccata e ha cominciato a girare a vuoto. Così mi sono collegato al tuo schema e mi sono ritrovato qui. Ma che diavolo c’è qui, che ti impedisce di ricordare tutto ciò che è successo da questo punto in poi?” Fissai il nostro capo psicologo per un lungo istante, poi lasciai che i ricordi tornassero in me. Sara. Il nostro appuntamento. Le nostre passeggiate nel parco. La nostra panchina.  Sedevamo qui, quando le dissi che sarei partito anch’io. E lei sorrise, e mi strinse forte, e mi disse che saremmo rimasti sempre insieme.
“Non posso venire con te, Johansen”, dissi, sentendomi la mente improvvisamente leggera.  “Tra poco Sara arriverà, e dobbiamo fare un lungo discorso.”
Lui sembrò non capire. Mi disse che dovevo superare lo shock, che non potevano ripristinare la matrice, se io non lo seguivo volontariamente lontano da lì. Ma io scossi la testa, deciso. “No: ho un appuntamento con Sara. Ci vediamo domani, Johansen.” Lui rispose che non ci sarebbe stato nessun domani, e disse anche altre cose, ma non le ricordo, e poi all’improvviso non c’era più.  Ma non m’importava. Non mi importa.
Mi siedo, sulla panchina verde, in attesa. d81cb0fc88263d35c57e583785e260af.jpgTra poco Sara arriverà, camminando con passo leggero lungo il viale alberato. Mi correrà incontro sorridente, mi abbraccerà e mi bacerà, e mi terrà teneramente la mano, raccontandomi la sua meravigliosa giornata. In un punto indefinito della mia mente, la voce insidiosa di Johansen continua a chiamarmi. Mi dice che tutto questo non è reale. Dice che Sara è morta, e che io non la vedrò mai più.

Ma è una voce bugiarda, e io non voglio ascoltarla.

                                                                                        
                                                                                      
alice1099

                   

Set 9, 2007 - poesie, racconti brevi    16 Comments

Il sogno e i canguri

fc54d83185624b6b346a7b42cda24c9e.jpg

Tempo fa, tanto tempo fa,  avevo scritto una poesia se così si può chiamare, non mi sembrava male, ma poi rileggendola mi ero reso conto che poteva avere qualche significato solo conoscendone l’antefatto, così avevo pensato di narrare anche quello. Cosa è successo dopo……… beh, questa è un’altra storia e non è dato di saperlo.

1fa8c301f0fccbc6a402bd16dec8ee5e.jpg 

Il sogno e i canguri

Nella stanza
prima tranquilla,
ora qualcosa è cambiato.
Il lampadario annoiato,
stanco
di stare appeso al soffitto
ondeggiando
occhieggia in altre stanze
alla ricerca
di un riflesso ramato.
L’armadio geme e scricchiola
nel tentativo
di fuggire dalla stanza
ad inseguire un ricordo.
Lo specchio
si corruga e s’affanna
cercando
di creare un immagine.
Le silenziose pareti
trattengono
gelose nei propri angoli,
l’eco di una risata.
Canguri smarriti
caduti da un sogno
saltellano impauriti,
alla ricerca di nuovi alberi
e del padrone del sogno.
La giacca di un pigiama
tenacemente conserva
vago un profumo
e un po’ di calore
nel ricordo di un corpo.
Un bianco letto,
ora troppo grande e vuoto
ed un cuscino
privato del fuoco di un capo
invocano nuovamente
la sua presenza.

                                     

98244986e1b8520b70eddd418b1d5a15.jpg                        

Notai per la prima volta la loro presenza rientrando in casa quella mattina, con gli occhi che si rifiutavano di restare aperti a causa del sonno. Lo vidi saltellare per la camera senza provocare alcun suono, irreale fantastico, un canguro rosso rame con profondi, malinconici occhi scuri.
Incubo, sogno od allucinazione? Sbattei più volte le palpebre cercando di scacciare quella imbarazzante visione, inutile, il canguro era sempre lì. Mi buttai sul letto più sorpreso che allarmato, gli occhi arrossati, il cervello appesantito dal fumo e da qualche bicchiere di vino di troppo e nonostante non riuscissi a scacciare l’immagine di quel folletto saltellante, né tanto meno a capire la ragione della sua presenza caddi in un sonno profondo, privo di sogni.
Riaprii gli occhi alle prime ore del pomeriggio, scrutai fuori dai vetri cercando di individuare, in un cielo completamente grigio, l’impossibile raggio di sole che colorava di rosso un angolo della stanza, poi lo vidi e ricordai. Era ancora lì, col suo fulvo mantello osservandomi con quei due grandi e profondi occhi. Due? No, quattro, sei occhi. Dal marsupio sul ventre erano spuntati due piccoli musi identici nel colore, rossi! I canguri erano diventati tre. Sbattei più volte le palpebre, stropicciai gli occhi, scossi in modo forsennato la testa cercando di snebbiare il cervello, cancellare la loro presenza, annullare quell’assurda visione. Niente! I canguri erano sempre lì e mi guardavano, sembravano stupiti dalla mia reazione, sembrava io dovessi sapere chi fossero ed il motivo della loro presenza. Girai lo sguardo per la stanza, era la camera di sempre, lo stesso letto, il medesimo armadio, lo specchio, i comodini, sul letto guanciale sprimacciato accanto al mio ed il di dubbio, l’assurda sensazione che mancasse qualcosa, qualcuno! Le prime dolorose contrazioni allo stomaco provocate dall’ansia, il senso di vuoto, l’assenza, la certezza! Il ricordo di un capo rosso rame, di uno sguardo profondo come il buio, il ricordo di un sogno accennato di piante e di canguri.
Di canguri! Tornai con la memoria alla sera precedente db4217e7c02082111151c7e2f154c15c.jpgquando, non sapendo cosa fare ci eravamo riuniti tutti a casa mia, amici ed amiche, trascorrendo la serata in allegria, ridendo e scherzando, giocando a certe ed accennando ad ipotetici quanto improbabili flirt. C’era anche lei, presente ed assente nello stesso tempo, estranea, come altre volte, a quanto le accadeva attorno. Istintivamente antipatica. Con quei suoi capelli troppo rossi, con i suoi occhi così strani, con quel suo modo di vestire trasandato e grande almeno due misure di troppo. Si alzò e mi chiese di telefonare, accennai di sì con il capo e continuai a giocare a carte con gli altri dimenticandomi di lei, come sempre. Passata la mezzanotte la compagnia cominciò a sfollare in un affollarsi di ciao, grazie di tutto, a domani, ci vediamo al bar, non so se ci sarò, ci sentiamo per telefono, quando in mezzo ad altre voci la sentii sussurrare:” Scusa, ti spiace se rimango qui a dormire? E’ tardi e non posso tornare a casa”. Ricordo la sensazione di fastidio che provai alla sua richiesta, lei dovette notare la mia espressione perché aggiunse subito quasi in tono di supplica:” Ti prego non ti darò fastidio, ecco – disse – dormirò qui sul divano”. Non ricordo se fu il tono della sua voce o lo sguardo triste dei suoi occhi a farmi cambiare idea, ma all’improvviso quell’antipatia istintiva ed immotivata che avevo provato sino ad allora nei suoi confronti si allentò e scomparve per lasciare posto alla curiosità. Le prestai un pigiama, le feci posto nel letto, giuro che per tutta la notte non mi sfiorò mai il pensiero di poter fare all’amore con lei, anche se, tolta dall’involucro informe dei suoi abiti, appariva all’improvviso fragile, graziosa e desiderabile. Non dormimmo, cominciammo a parlare. Non ricordo esattamente da dove iniziò la conversazione, però parlammo di tutto. Lei accennò al suo mondo, ai suoi amici, parlò dei suoi problemi, delle sue paure, dei fantasmi che popolavano i suoi sogni ed io l’ascoltavo, accendendo l’ennesima sigaretta e riempiendo ancora una volta i bicchieri. Poi, forse a causa della stanchezza e del vino, i nostri discorsi divennero improvvisamente assurdi, irreali, fiabeschi. Parlammo di armadi viaggiatori che, stanchi di stare ancorati ad una parete, fuggivano irrequieti dalle camere. Di lampadari antipatici che ondeggiavano pericolosamente sui soffitti minacciando di cadere. Di box che al mattino non volevano più aprirsi e fare uscire le auto per la paura di dover rimanere nuovamente soli. Le sue risate, echeggiando squillanti ed argentine, costrinsero più volte i vicini a percuotere con i pugni le pareti invocando il silenzio. Questo quando lei, alle quattro del mattino con gli occhi semichiusi dal sonno, si addormentò augurandomi, dopo un ultimo sbadiglio, la buonanotte ed io rimasi sveglio guardandola dormire, senza pensare a nulla, sorvegliando il suo sonno affinché in suoi sogni non si trasformassero in incubi e nel sonno, mi si raggomitolò contro, cercando inconsciamente la protezione di una madre. Si risvegliò alle otto, si stirò e sorrise:”Ciao – disse guardandomi – sai ho fatto un sogno strano, bellissimo, ero in un bosco  verde con tanti canguri che saltavano fra gli alberi…” e continuò a narrarmi il suo sogno felice come una bambina, sino a quando più tardi, una sua amica la venne a prendere. Si rivestì e io l’accompagnai sino alle scale, :” Ciao ci vediamo, grazie” disse, mi sorrise ancora poi si avviò di corsa per le scale.
Fu proprio allora che rientrando in casa vidi il canguro, i canguri. In poche ore ero passato dall’antipatia alla simpatia, dalla simpatia a qualche cosa d’altro che non volevo ammettere, no, pensai, non è possibile. Solo da poco ero uscito piuttosto ammaccato da un matrimonio a dir poco burrascoso e sino a qual momento non avevo avuto alcuna intenzione di iniziare  una nuova relazione. No! Mi dissi. Non voglio, non devo.
“No. Non puoi.” Quella voce echeggiò nella mia testa ripetendosi come un eco.
“Chi…?” esclamai sgomento.
“Noi” Mi volsi.
“Si, noi, i canguri”
“Voi non esistete, – urlai  – non esistete e non siete mai esistiti. Non potete parlare, siete un incubo, una allucinazione, un’assurda ipotesi. Via! Andate via!”.
“Non possiamo, – risposero – E’ vero, prima non esistevamo, prima di cadere da un sogno, ma ora siamo qui come te e aspettiamo”.
“Aspettate? Aspettate cosa? Che cosa aspetto?”
“Lei – risposero – che lei torni a prenderci”.
“Tornerà?” chiesi sconfitto.
“Forse” risposero.
a7232ce57fce5f94cd3ab3e6989e2b73.jpgChiusi gli occhi per l’ennesima volta cercando di riordinare i pensieri, cercando di dare una spiegazione a quella sensazione di vuoto, alla mancanza di qualcosa. Li riaprii e li richiusi nuovamente nella speranza che tutto potesse tornare alla normalità, sperando, riaprendo gli occhi, di poter constatare la scomparsa di quegli strani e saltellanti folletti rossi. Niente, erano ancora lì, così mi costrinsi ad accettare quell’impossibile presenza quasi fosse un fatto reale. Mi vestii di corsa, uscii e girai per la città quasi fossi un invasato andando da un bar all’altro, da una piazza all’altra nella speranza di incontrarla nuovamente. Incrociando gli amici presenti la sera prima a casa mia mi soffermavo a fare quattro chiacchiere, ma dentro bruciava la voglia di chiedere se l’avessero vista, se ne conoscessero l’indirizzo od il numero di telefono ma senza mai trovare il coraggio per farlo. Alla sera tornato a casa, ritrovai ad attendermi i canguri, il più grande sulla porta della camera ed i piccoli che, silenziosi, saltellavano sul letto. Mi guardarono muti ma i loro occhi esprimevano una silenziosa domanda “L’hai vista? Tornerà a riprenderci?”.
Non risposi, la mia espressione era più eloquente di qualsiasi parola. Scoraggiato mi buttai sul letto cercando di prendere sonno e col sonno dimenticare, loro mi circondarono pazienti ed attesero, poi, quando finalmente mi addormentai, silenziosamente entrarono nei miei sogni. Continuai così per diversi giorni a girovagare per la città nella speranza di incontrarla, senza nessun risultato, la sera rientrando a casa incontravo nuovamente i canguri che ripetevano ogni volta con gli sguardi la medesima domanda, aspettando poi, pazienti come sempre, che mi addormentassi per entrare nei miei sogni ed uscirne nuovamente al mio risveglio all’alba, nell’implorante attesa di poter tornare ancora una volta a quell’unico vero sogno.

 

                                                                                                 refusi

Ago 25, 2007 - racconti brevi    5 Comments

Anche i pensionati vanno in vacanza

af70e8644edc62ee14f6f3b7daba3689.jpg

Val Badia – Corvara – il Sassonger

Sì, anche i pensionati vanno in vacanza  e di solito lo fanno fuori stagione, quando gli altri non sono ancora partiti o sono già per la gran parte rientrati e lo fanno per due ragioni,  l’insofferenza all’eccessiva presenza di folla  dovuta all’età, e la ben più grave insofferenza dovuta ai prezzi dell’alta stagione.
Pertanto anch’io come molti di questi pensionati partirò per le vacanze in questo periodo, domani per l’esattezza. Andrò in quei luoghi che ormai da parecchi anni sono il luogo abituale delle mie vacanze sia estive che invernali, le montagne della luna, le Dolomiti. Partirò seguendo il percorso abituale,  rifuggendo il traffico caotico dell’autostrada, costeggerò il lago sino a Colico, poi su per la Valtellina, Sondrio, Tirano, deviazione per l’Aprica, poi giù sino ad Edolo per risalire ancora verso Ponte di Legno ed il passo del Tonale, sosta per il caffè ed uno sguardo su, al ghiacciaio del Presena dove staranno sicuramente sciando. E giù ancora di nuovo verso la Val di Sole sino a sfiorare  Madonna di Campiglio ed addentrarsi nella Val di Non  dove sarà sicuramente in corso la prima raccolta delle mele e su ancora sino al passo della Mendola, dove in uno dei ristorantini locali ci si fermerà per un breve spuntino e da cui si ripartirà per discendere verso Bolzano non senza avere dato uno sguardo prima a quella che in passato era stata per anni la residenza estiva della Principessa Sissi Imperatrice d’Austria e regina d’Ungheria. Da Bolzano su lungo la Val d’Adige, per addentrarsi poi lungo la Pusteria ed infine , prima di Brunico deviare per la Val Badia e su sino a La Villa dove da anni affitto un appartamentino, sia l’estate che l’inverno e vi assicuro che già questo primo giorno è un ottimo preludio alla vacanza. Amo questi luoghi e ormai li considero come una mia seconda casa, vi sono giunto una ventina di anni fa quasi per caso e da allora non li ho più abbandonati, ho percorso sci ai piedi quasi tutte le piste, camminato per innumerevoli sentieri, raccolto funghi,  scattato migliaia di foto e diapositive ed ancora non mi sono stancato di ripercorrere questi luoghi e di ammirarne la bellezza. Sì domattina parto e per una decina di giorni vi lascio, sono sicuro che vi mancherò, e che visto che mi volete molto bene vi state augurando che io possa stabilirmi in quei luoghi che amo senza più tornare.
Ma per non farvi pesare troppo, la mia assenza, ho approntato un paio di piccole cosette che verranno postate nell’arco di questi giorni, mi sembra di sentire i vostri sospiri di sollievo alla notizia, un saluto a tutti i bloggher a presto                                                                           refusi

Pagine:«12345»