Mar 12, 2010 - racconti brevi    11 Comments

Il sabato del pensionato

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Capita anche a voi vero di svegliarsi al mattino non riuscire più a dormire e decidere così all’improvviso di andare a sciare??? Nooo? beh a me capita. Questa mattina per non so quale ragione mi sono svegliato presto o così mi è parso di capire della luce che filtrava dalla tapparella, non riuscendo a riaddormentarmi decido di alzarmi a fare colazione. Mi alzo guardo oltre i vetri della finestra sul terrazzo il cielo e limpido non vi è traccia di una sola  nuvola ed il vento che il giorno prima aveva imperversato sembra essersi calmato. Sono la 7,45. Faccio colazione e mentre sorbisco il tè penso che si potrebbe anche andare a sciare. Ormai son o le 8. Naaaaaaa mi dico non ne vale la pena, devo prepararmi, fare la strada, arriverei a Madesimo dopo le 9,30 e difficilmente potrei essere sulle poste prima delle 10,30 e in più è sabato folla agli impianti, folla sulle piste. Non ne vale la pena. Torno a letto. Ma ormai l’idea che si potrebbe andare a sciare si è insinuata nel mio cranio. Impossibile riprendere sonno. All’improvviso l’illuminazione, la Sighignola. Sì è vero il luogo e piccolo, non so neppure se è ancora in funzione, ci sono stato una sola volta una 15ina di anni fa, un campetto scuola, uno skilift e due piste parallele lunghe all’incirca un km. Beh un chilometro è pur sempre un chilometro direte voi. Sì se lo fate a piedi con gli sci è quasi un sospiro. Ma che importa mi dico provare non costa nulla tanto di dormire non se ne parla, il luogo dista solo una 30ina di km da casa tutt’al più avrò fatto una passeggiata. Mi vesto in un attimo scendo carico la macchina e parto. Prima delle nove sono già sul posto. Salendo non ho incontrato una sola auto. Mi sorge il dubbio che quei piccoli impianti non siano più in funzione, poi al parcheggio scorgo un bimbo in compagnia del padre che sta calzando gli scarponi. Bene, mi dico si scia. Parcheggio calzo gli scarponi, prendo gli sci e mi avvio.  Il luogo è come lo ricordavo, piccolo vero, ma ben innevato, a lato del campo scuola dove alcuni bimbi stanno già sciando con l’ausilio dei maestri al posto del piccolo skilift è stato posto un tapis roulant per facilitare la risalita ai bimbi. Attraverso la baby e mi porto sulla pista ed inizio a scendere in perfetta solitudine, non c’è nessuno. La pista non è difficile anzi, ma le neve è una crosta dura e si deve sciare con attenzione. Ora capisco perché sono il solo, gli altri aspettano che la giornata si scaldi e che la neve si allenti un po’ per poter sciare con più tranquillità. Risalgo e scendo sull’altra pista, qui la neve è più morbida e gli sci faticano meno a fare presa, sono quasi giunto in fondo quando scorgo all’incrocio delle due piste un fagottino rosso per terra che armeggia con i bastoncini cercando di rialzarsi. E’ una bimba, gli chiedo se abbia bisogno di aiuto, sempre meglio farlo con i bimbi che stanno imparando, mai intervenire se non richiesti, anche loro hanno il loro orgoglio. Mi risponde di sì, così la rimetto in piedi l’aiuto a calzare nuovamente gli sci e l’accompagno sino alla partenza dell’impianto dove il padre suppongo la sta ad aspettare. “Ciao signore grazie, un sorriso e va. Risalgo anch’io e comincio il saliscendi, certo e un po’ monotono. Su, giù- Su, giù. Ma la giornata e bella le neve anche e la pista divertente e poi ci sono gli intermezzi recupero bimbi. Sì perché nel corso delle giornata in più di un occasione dovrò dare una mano ad un bimbo caduto sulla pista o sganciatosi a metà sull’impianto, la cosa ha un che di divertente, vedere i loro sorrisi e ascoltare quel ciao signore grazie. Ad un certo punto m i viene quasi il dubbio che mi abbiano scambiato per l’addetto al soccorso. Sulle piste nel frattempo è arrivata altra gente, sono le 11 e decido di fare una pausa. Salgo, sgancio gli sci e mi reco al rifugio. La costruzione e bella e ben tenuta. Fuori in pietra a viste e all’interno legno massello, simpatica, decido che mi fermerò a mangiare. Al bar una ragazza carina, capelli lisci e neri occhi scuri,  mi guarda, sorride e sembra incantarsi per un attimo prima di chiedermi cosa voglio. Ehi credo di avere fatto colpo. Ordino un bombardino, lo sorseggio con calma, mentre lei, continua ad osservarmi. Pago e saluto lei saluta e sorride, arrivederci. Torno a sciare e già alla prima discesa, o meglio salita, il carro recupero bimbi entra in funzione. A metà salita il bimbo che mi precede scivola e cade sganciandosi del piattello. Lo raggiungo mi sgancio lo sollevo e lo accompagno sul bordo, trovo un sentiero che conduce alla pista e piano piano la raggiungiamo. Il tempo di arrivarci e una donna sulla trentina arriva sciando scivola e mi frana addosso, reggo all’urto e blocco anche lei. Il bimbo ride, “Zia sei caduta anche te” “Sì -dice lei- ero andata a chiamare lo zio per aiutarti adesso arriva” . Dello zio nessuna traccia, che abbia voluto lanciare il messaggio sono la zia ma non sono sola?? Saluto e riprendo a sciare, su e giù, su e giù, con qualche intermezzo sino alle 13, poi decido che è l’ora di andare a mangiare. Ripongo sci e scarponi in macchina ed entro nel ristorante, la sala è affollata, tutta gente in abbigliamento da sci che non ho visto sulle piste e mi rendo conto di quante siano in realtà le persone che vanno a sciare al ristorante. La ragazza che mi aveva servito al bar mi viene incontro, mi sorride nuovamente e li accompagna al tavolo. Confabula con le sue colleghe e poi torna a prendere l’ordinazione, sì, devo avere fatto colpo. Sarà lei a servirmi per tutto il pranzo, passando più volte a chiedere se tutto va bene, se desidero altro. Il pranzo è terminato, bevo il caffè, pago il conto, saluto. Arrivederci, e il sorriso questa volta arriva agli occhi. A volte è difficile essere fedeli.
  • ps. dimenticavo la polente e capriolo era da favola  {#emotions_dlg.smile}

Questo è  accaduto sabato scorso, perchè lo posto ora vi chiederete? Semplice perché io domani e per qualche altro giorno sarò lassu, nei luoghi della foto. Forse non vi saranno bimbi da aiutare da quelle parti ma vi assicuro che io, mi divertirò lo stesso.

Ciusssssssssssssssssss

Mar 4, 2010 - poesie    3 Comments

Partenza

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Una casa abbandonata
sulla riva di un fiume
e un cane che abbaia
davanti a un portone.
                                           Cane che abbai,
                                           dov’è il tuo padrone?
Perché abbai sempre
alle ombre che avanzan
sicure al fuggire del sole?
La casa è vuota,
le finestre son prive di luce.
                                            Cane che abbai,
                                            dov’è il tuo padrone?
L’hai visto partire
ha detto che andava
a cercare la vita,
ma dove?
L’hai visto, scendeva
pian piano sul fiume
disteso,
con gli occhi sbarrati
guardava la luce.
                                            Cane che abbai,
                                            dov’è il tuo padrone?
L’han visto passare
in città, sotto al ponte
sembrava sognasse,
con gli occhi sbarrati,
guardava la luce,
passando non vide
ne ponte ne case.
                                            Cane che abbai,
                                            dov’è il tuo padrone?
L’han visto l’altr’ieri,
sul mare.
Sdraiato sull’acqua,
con gli occhi sbarrati
guardava la luce,
la braccia allargate
in un ultimo,
segno di croce.
                                            Cane che abbai,
                                            dov’è il tuo padrone?
                       refusi

        

Mar 3, 2010 - genesi e nemesi, poesie    Commenti disabilitati su Reminescenze

Reminescenze

woodelfarmybook

Dove corri uomo

inalberando

il cric dell’auto

sulla tua rabbia.

Ataviche memorie

di antiche clave

insorgono.

In nuove giungle

di cemento e vetri

combatti

gli immani mostri

nati

dalla tua ansia.

Feb 16, 2010 - pensieri    8 Comments

Il mare….

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…. non vorrebbe adirarsi il mare, ma… il vento, ohh ma il vento…
Appare improvviso dapprima ruffiano, scende dolce, carezza con docile mano e poi…
quando il mare si pasce inseguendo un ricordo, lui improvviso, affonda la mano. Improvviso schiaffeggia, sibila urla e il mare sorpreso si sveglia, si scuote. Tradito ed offeso reagisce con rabbia e inalbera mura di onde schiumanti di inutile ira…….
Il mare non vorrebbe adirarsi, ma il vento, ohh il vento…………..
Gen 23, 2010 - poesie    5 Comments

Fantasmi

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Nei nostri sogni
il vero non colto
ristagna da sempre,
appannato,
da futili gioie.
Divertimenti inventati
a riempire
le nostre angosce.
                                 refusi

I ragazzi della via Palestro

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Manici di scopa e bacchette d’ombrello.

 

Amava la pesca da sempre, da quando la prima volta col fratello più grande si era recato a pescare poco più su di casa nelle acque del torrente che scendeva dalla valle di Tavernerio verso Como. Per la verità la cosa era più che normale visto che tutti i ragazzi del quartiere andavano a pescare ma per lui la cosa aveva subito acquistato un sapore diverso, una dimensione particolare, un rapporto intimo fra lui, la canna, l’acqua e il silenzio. Quella situazione, quell’insieme di cose erano diventate il suo mondo speciale, un luogo di sogno, il suo piccolo santuario, dove trascorrere ore con la canna in mano mentre col pensiero vagava indisturbato lungo i sentieri della fantasia, in luoghi dove lui solo era in grado di arrivare. Ricorda ancora con sorpresa quella sensazione che si era impadronita di lui quando impugnata la canna da pesca aveva lanciato la lenza verso l’acqua per la prima volta e poi osservato il galleggiante bianco e rosso, una penna d’oca tagliata nella lunghezza di qualche centimetro con degli anellini di plastica per trattenerla agganciata al filo, scendere veloce a valle trascinato dalla corrente. Il gesto si era ripetuto ancora, il lancio, lo scorrere del galleggiante sull’acqua, il recupero, il lancio, ancora e ancora; in un susseguirsi quasi ipnotico di gesti e di sguardi fissi al galleggiante fra i riverberi del sole sull’acqua. Non aveva pescato nulla quel giorno, ma malgrado il fratello maggiore lo avesse bonariamente deriso per il risultato, lui non era rimasto deluso dalla giornata, affatto e si era riproposto di ripetere al più presto quell’esperienza. Così i giorni di pesca si erano susseguiti per tutta l’estate, sempre in compagnia del fratello e di qualche amico. Poco per volta aveva affinato le sue capacità, aveva pazientemente appreso a fabbricare una lenza, misurare il filo pari quasi alla lunghezza della canna, legarlo in alto al cimino flessibile, farlo scorrere negli anellini per agganciare il galleggiante, la “veletta” come veniva chiamata a quei tempi, mettere il piombino, piccole palline di piombo di varie dimensioni e peso tagliate a metà l’ungo il diametro dentro al quale veniva posto il filo per poi essere chiuso con una morsa dei denti, non troppo stretto perché il piombino poi doveva poter scorrere lungo il filo ed essere posizionato all’altezza più conveniente a seconda della profondità dell’acqua e della corrente e poi, agganciare l’amo, l’operazione più difficile perché presupponeva una tecnica particolare, non era sufficiente un semplice nodo. Era diventato bravo anche a pescare e dopo la prima volta non era mai tornato a casa a mani vuote vuote, poco a poco il suo bottino era divenuto sempre più cospicuo sino quasi ad eguagliare il fratello e sicuramente di gran lunga superiore ai risultati ottenuti dai suoi coetanei. Erano andati a pescare anche al lago, distante non più di un chilometro dalla loro abitazione, sì perché il torrente non poteva essere sfruttato più di tanto, esagerare con la pesca voleva poter dire dover rinunciarvi la stagione successiva a causa della scarsità dei pesci, vaironi ma soprattutto trottelle che ormai cominciavano a scarseggiare. Certo i pesci di torrente erano più buoni, dolci e saporiti di quelli del lago, ma anche una bella frittura di alborelle in tavola non avrebbe di certo sfigurato. Il suo rapporto con la pesca si era ulteriormente rafforzato, ma non era mai andato a pescare da solo, non perché avesse paura, anzi dentro di se agognava quel momento, l’alzarsi il mattino presto, legare la canna alla bicicletta, montarci sopra e via, pedalare lungo le strade deserte e silenti sino al lago e là diventare tutt’uno con l’acqua e la canna dove i pesci erano, loro malgrado, solo degli involontari interpreti del fatto. Questo non toglie che non fossero più che graditi, di quei tempi avere del pesce in tavola non era cosa di tutti i giorni e quando abbondava veniva distribuito a tutte le famiglie del caseggiato. Il fatto era che lui non aveva una canna sua ed utilizzava quelli che erano i pezzi di ricambio, avanzi di precedenti canne da pesca del fratello, non disponibile ad autorizzarne l’uso in sua assenza. Così un giorno decise che era venuto il momento di acquistarne una. Da tempo aveva adocchiato una canna nel negozio di pesca sportiva dove si era recato alcune volte ad acquistare ami e filo per conto del fratello, una bella canna in bambù, quattro segmenti della lunghezza di un metro ciascuno, era quella che costava meno, trecenticinquanta lire, non molto per la verità, comunque sempre troppo per lui. Di chiedere i soldi a casa non c’era nemmeno da parlarne. Si sarebbe dovuto arrangiare evitando di spendere gli spiccioli che riusciva a rimediare con gli amici raccogliendo ferri vecchi e fili di rame alla miniera. Dopo un paio di mesi era riuscito a racimolare la somma, quattrocento lire, delle quali trecentocinquanta sarebbero servite per la canna, il rimanente per filo ami, piombi e galleggiante. Così nel pomeriggio, uscito da scuola, si recò al negozio acquistò canna e attrezzatura e si diresse felice a casa, perse un po’ del suo tempo a spiegare al padre la provenienza dei soldi con i quali aveva provveduto all’acquisto, poi si recò nel solaio di casa dove tranquillamente si mise a preparate un paio di lenze per non perdere tempo il giorno successivo a montarle sul posto. La mattina dopo era domenica, sarebbe andato a pescare da solo per la prima volta, il fratello, maggiore di sette anni, da tempo al sabato sera si dedicava ad altre faccende ed il mattino era impossibile smuoverlo dal letto.

Preparata la lenza l’avvolse sul legnetto di supporto e la legò alla sommità della canna assicurando in tutto con un elastico, aveva predisposto tutto. Si svegliò ancora prima del suono della sveglia, guardò le ore, erano le quattro e trenta e non era ancora chiaro, ma la smania per quella che sarebbe stata la sua “prima” gli impedì di prendere nuovamente sonno, si alzò cercando di non fare rumore, si vestì, prese la canna ami e filo di scorta una vecchia federa di cuscino che faceva da sacchetto da raccolta, le esche e scese giù in cortile dove lo attendeva la sua bicicletta. Tutto era come se lo era immaginato, il cielo che solo allora tendeva a schiarire, l’aria fresca di un mattino di inizio giugno, il profumo dei tigli del viale, e poi via pedalando lungo le vie deserte del centro e… l’odore del pane appena sfornato. Si fermò davanti all’ingresso del fornaio come era solito fare col fratello, bussò leggermente alla finestra che si aprì per mostrare il viso sorridente del panettiere che subito gli porse due michette appena sfornate, calde e fragranti,in cambio delle moneta di dieci lire che si era portato appresso, la sua colazione, al resto avrebbe provveduto la fontanella della piazza, il drago verde, come veniva chiamato a causa dell’immagine raffigurata sulla cima.. Aveva scelto un luogo particolare per iniziare le sua avventura di pesca solitaria, un luogo un po’ isolato poco frequentato dai pescatori a causa della riva alta e delle difficoltà che presentava di recupero del pesce se di discrete dimensioni, lui lo aveva scelto soprattutto per questa ragione, avrebbe trascorso la sua giornata di pesca in tutta tranquillità, col suo rapporto speciale con la canna, l’acqua e il sogno. Giunto sul posto, constatò con piacere che il luogo come aveva sperato era deserto, le prime luci dell’alba si stavano affacciando da dietro la corona di monti che incorniciavano il lago, si affacciò al parapetto e diede una scorsa all’acqua giù sotto, le basse acque della riva pullulavano come previsto di cavedani di varie dimensioni, tutti presi dalla frega, le grosse femmine intente alla posa delle uova ed i più piccoli maschi a lottare fra loro nel tentativo di raggiungerle e fecondarle. Montò la canna, sciolse la lenza, ed iniziò a pescare. Aveva elaborato un sistema tutto suo per quel tipo di pesca, il galleggiante che solitamente serviva a segnalare che il pesce aveva abboccato, in quel caso serviva solo ad appesantire la lenza per facilitare il lancio, il filo, caricato solo di un leggero peso che serviva a fare scendere l’esca sotto al pelo dell’acqua, lui, pescava ad occhio. Certo, non era facile, ma funzionava. Occorreva seguire attentamente l’esca mentre scendeva poco alla volta, osservare attentamente l’avvicinarsi dei pesci e della possibile preda, allontanare l’esca, con un piccolo movimento della canna dal muso del pesce quando questi si avvicinava, per confonderlo e spingerlo all’attacco, per impedirgli di notare la presenza dell’amo e del filo. Occorreva tempismo, abilità e destrezza, ma funzionava, anche se, causa la velocità dell’esecuzione, ma soprattutto delle dimensioni della preda, a volte la lenza non reggeva allo strattone improvviso ed il pesce, dopo un veloce contorcimento, si allontanava nell’acqua con l’amo infisso nella mascella. La giornata prometteva bene, era passata solo una mezzora dal suo arrivo e già due pesci del peso di un paio di etti avevano cominciato a gonfiare il sacchetto. Quasi sdraiato sul muretto che costeggiava la sponda continuò a pescare ed ecco che un cavedano di buone dimensioni, si avvicinò all’esca, una piccola esitazione, il leggero spostamento laterale della stessa, l’attacco e l’aggancio. La lenza, rispose alla sollecitazione improvvisa, si tese ma non si spezzò la canna si inarcò quasi volesse spezzarsi, il pesce lottò con tutte le sue forze, cercò di inabissarsi velocemente, poi trattenuto dal filo, tornò velocemente verso la superficie, saltando fuori dall’acqua, per poi ricadervi e tentare nuovamente di inabissarsi, sempre accompagnato in ogni suo tentativo dalla canna che ne seguiva ogni suo movimento. In un continuo ripetersi, era una lotta di resistenza. O sarebbe riuscito a spezzare il filo, a liberarsi dell’amo, oppure alla fine stanco e stremato sarebbe stato lentamente condotto a riva e salpato, e fu quanto accadde. Aveva il pesce fra le mani, lo osservava attentamente, era soddisfatto, felice. Sicuramente la preda superava il mezzo chilo di peso, forse la sua migliore cattura sino a quel giorno, lo avrebbe mostrarlo con orgoglio a casa vantandosi col fratello, ora anche lui era diventato un pescatore provetto.

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Appoggiata la canna sul marciapiede, lentamente si apprestò a slamare il pesce senza accorgersi che la canna aveva iniziato a rotolare, con un movimento quasi impercettibile, verso il bordo del marciapiede. Il pesce era stato slamato a con cura e riposto con gli altri nel sacchetto, ma nel frattempo la canna nel suo lento rotolare aveva superato il bordo del marciapiede ed era finita sulla strada proprio nell’attimo in cui stava sopraggiungendo la filovia che collegava Como con Cernobbio. Il rumore non fu forte, solo uno scricchiolio richiamò la sua attenzione, giusto il tempo per vedere il filobus allontanarsi e scorgere, sull’asfalto, i resti sbriciolati di quella che sino a pochi istanti prima era stata la sua canna, la sua prima canna. Non sapeva più quello che provava, rabbia delusione, dolore gli montarono dentro. Le lacrime gli salirono agli occhi mentre imprecava ad alta voce contro se stesso e la sua stupidità. Quella che era iniziata come una splendida giornata si è trasformata in una piccola tragedia ed era solo metà mattina, non restava che raccogliere i pesci, liberare la strada dei frammenti di canna e rientrare a casa. Al rientro la madre lo guardò sorpresa, “Come mai così presto?” chiese senza ottenere risposta. Lui le porse il sacchetto dei pesci e poi, con gli occhi ancora lucidi di pianto, salì in soffitta in quello che era il suo piccolo rifugio e qui, riprese a rimuginare ancora una volta sull’accaduto, se avesse fatto più attenzione, se avesse posato la canna in diagonale se, se………. Sì era rovinato la giornata e non solo quella, sarebbero occorsi un paio di mesi prima che fosse in grado di racimolare la somma che gli potesse consentire l’acquisto di una nuova canna, e nel pomeriggio, non avrebbe potuto tornare a pescare. Così pensando , girò con lo sguardo per la soffitta sperando di intravedere le canne del fratello, inutile, anche lui seppure tardi se n’era andato a pesca con gli amici, sarebbe rientrato solo verso sera ed aveva portato tutto con sé, anche i ricambi. Nulla nemmeno un pezzo di canna era visibile, solo un manico di scopa e i resti di un vecchio ombrello. Un manico di scopa ed un ombrello, vuoi vedere che……. Un’ idea gli passò per la mente, per quanto balzana fosse avrebbe anche potuto funzionare. Prese il manico di scopa e lo strinse nel morsetto del tavolo da lavoro, poi con l’aiuto di un accetta e del martello, picchiando piano piano per evitare che ii manico si spezzasse, praticò un taglio verticale di una decina di centimetri sulla sua sommità. Prese l’ombrello e ne esaminò le bacchette, ferro pieno abbastanza robusto e resistente e flessibile, avrebbero potuto anche reggere. Ne prese due le legò strettamente con dello spago alla due estremità, lasciando quella inferiore libera per una decina di centimetri e provvide ad infilarla a forza nella fessura praticata nel manico, assicurandola con dei tasselli di legno sui lati e poi legando strettamente il tutto ancora con dello spago. L’aggeggio ottenuto, perché di certo non poteva essere definito una canna, era lungo, se così si poteva dire, poco meno di due metri, rigido, come un manico di scopa appunto nella sua prima parte ma molto flessibile forse troppo nella parte terminale. Lo osservò per un po’, ne saggiò la resistenza e pensò che con un po’ di accortezza e pazienza avrebbe potuto anche funzionare, occorreva solo trovare un posto adatto in prossimità dell’acqua e già sapeva dove andare. Ridusse le lenze preparate la giornata prima per la canna alle giuste dimensioni, ne agganciò una alle bacchette d’ombrello, l’assicurò col solito elastico, poi lo appoggiò al muro e scese a pranzo. Il pomeriggio sarebbe tornato a pescare. Non erano ancora le tredici che già stava pedalando con lo strano aggeggio al seguito, legato alla canna delle bicicletta, dirigendosi verso il luogo prescelto. Si trattava di una piccola insenatura lungo la passeggiata a lago con una spiaggetta ed un piccolo molo su di un lato, quello aveva deciso, sarebbe stata la sua postazione di pesca. Il luogo era già frequentato. Alcuni pescatori, attrezzati di tutto punto, cappello con esche, camicia e pantaloni cachi, gilet verde griffato dallo stemma della società di pesca, si avvicendavano sulla riva, con le loro canne a mulinello, milanesi, pensò, ma anche la loro presenza era stata prevista.

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Prese il tuo attrezzo artigianale, scavalcò la ringhiera e si assestò sul muretto. Nel vederlo gli altri si guardarono poi uno chiese, “Ma con quello cosa conti di fare? Infilzarli?” e scoppiarono a ridere fragorosamente. Il loro atteggiamento non lo sorprese più di tanto, ci era abituato, altre volte avevano riso per la sua attrezzatura raffazzonata, certo mai “così” raffazzonata. Alzò le spalle con noncuranza e fece il primo lancio pensando, “Aspetta che se solo regge per la giornata, poi vediamo chi ride”. Non erano passati nemmeno 10 minuti che il suo braccio si mosse all’indietro di scatto, le due bacchette d’ombrello sollecitate del peso di un bel cavedano di buone dimensioni si fletterono quasi ad arco, lui lentamente, sempre con la scopa ben salda nelle mani, fece il percorso inverso, scavalcò nuovamente la ringhiera, scese alla spiaggia, vi trascinò dolcemente il pesce guizzante, lo slamò e lo infilo nel sacchetto, per tornare a riprendere la sua posizione di pesca sul moletto, sotto lo sguardo stupito dei “milanesi” che commentarono fra di loro “Solo uno sfacciato colpo di fortuna”. Ma i colpi di fortuna continuarono a susseguirsi per tutto l’arco del pomeriggio alla distanza di dieci, quindici minuti l’uno dall’altro. I “milanesi” che da parte loro stavano ottenendo uno stupendo cappotto, ora non ridevano più. A guardarli bene sembravano loro i cavedani, ogni volta che lo osservavano lasciare il moletto e scendere alla riva per slamare il pesce. Bocca aperta, occhi spalancati, sguardo fra il confuso, il contrito e l’adirato. Si sarebbe potuto giustamente dire che “non sapessero più quali pesci pigliare”. La giornata volgeva al termine, soddisfatto per il risultato comunque ottenuto per merito dello strano attrezzo, ma ancora triste per la perdita delle nuova canna, si accinse a rientrare a casa; scavalcò per l’ultima volta la ringhiera, raggiunse la bicicletta, legò saldamente il manico di scopa alla canna, esaminò il contenuto del sacchetto, dove una quindicina di cavedani tutti sui due, tre etti di peso facevano bella mostra di sè ed iniziò a legarlo per assicurare anche quello alla bicicletta sul portapacchi posteriore. Durante l’operazione i milanesi, che nel frattempo avevano riposto anche loro l’attrezzatura si erano avvicinati ed ora lo osservavano quasi con timore e rispetto, sino che uno trovò il coraggio di parlare:

Ora cosa ne fai dei pesci?” chiese.

Li porto a casa alla mia mamma” rispose lui

Non ce ne daresti qualcuno?” fu la timida richiesta.

Non so – rispose – sa a noi a casa i pesci servono per la cena”
“Ma dai ne hai presi tanti, e poi domani tu potrai tornare a pescare”

Ma mica gratis sai, – aggiunse subito un altro – te li paghiamo”
“Non so, poi a casa……. “

A casa puoi dire che oggi non hai preso niente”, si intromise il terzo, e subito come per incanto nelle mani dei tre apparvero delle banconote da cinquecento lire.

Solo un attimo di esitazione, poi pesci e banconote si scambiarono di mano. Inforcata la bicicletta, con le banconote nella tasca dei pantaloncini, pedalando velocemente raggiunse il negozio di pesca sportiva aperto anche la domenica in quanto tabaccaio. Rientrò a casa per l’ora di cena senza pesci ma con una canna nuova di zecca più bella della precedente, un cestino di vimini per i pesci nel cui interno erano posizionati con cura, galleggianti, rocchetti di filo, scatolette di ami e di piombi; un’attrezzatura completa. Il padre lo guardò prima con sospetto, poi ascoltando l’intera storia sorridendo quasi con orgoglio disse “Sì, va bene, ma la prossima volta, i pesci, portali a casa”.

Bravo – gli disse invece il fratello e poi all’improvviso gli ammollò uno scappellotto fra capo e collo – ma la prossima volta spegni la sveglia”.

L’oggetto misterioso non fu mai più utilizzato ma rimase là nel solaio facendo bella mostra di sè a ricordo di quella splendida giornata.

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Gen 11, 2010 - esternazioni in prosa, poesie    Commenti disabilitati su Comprensione

Comprensione

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Capì e tacque,

sol chi volle capire.

Gli altri animosamente,

stanno discutendo ancora,

ma senza aver capito

non han nulla da dire.

Gen 10, 2010 - poesie    7 Comments

Chimere

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Il capo volto ad orrizonti nuovi,
pensieri avvolti dentro un sogno
antico,
in aridi deserti,
bramando l’oasi
ci disperdiamo
in stentorei passi
dentro a spirali persi,
chimere.
                               refusi
Dic 28, 2009 - pensieri    7 Comments

Post Natale, due pensieri a braccio

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Così, come sempre, seguendo gli eterni dettami del tempo, anche questo Natale è passato. Abbiamo trascorso i giorni che lo precedevano freneticamente, lungo le strade, in un susseguirsi dentro e fuori da negozi alla ricerca, dei regali o nell’acquisto di specialità gastronomiche che avrebbero allietato la nostra tavola. Abbiamo incartato pacchetti, poi via, tutti alla messa di mezzanotte, ci siamo scambiati il segno della pace col vicino, sentendo la commozione che ci saliva da dentro e ci inumidiva gli occhi e ci siamo sentiti più buoni in quel giorno di Natale che ci stava aprendo le porte. Abbiamo scartato i regali, delusi e rassegnati, nella maggior parte dei casi, salvo quelli di stretta parentela o di insorgenti affetti, abbiamo regalato cose inutili e siamo stati ampiamente ricambiati. Il Natale poi si è stemperato fra prosciutti, paté, aragoste, cosce di cappone, arrosti e bolliti, frutta secca e fette di panettone in un susseguirsi in interrotto di calici lavati. Bissando poi il tutto la giornata di Santo Stefano e chiudendo con quanto avanzato la domenica successiva ed ora, ora ci ritroviamo qui, con lo stomaco dilaniato dai bruciori, il ventre teso come un tamburo di pelle d’asino e alla testa il cerchio di una botte intento a contenere tutti i fumi dell’alcool ingerito. Ci ritroviamo qui, con un sacco di ciarpame a cui dovremmo trovare posto, mantenendolo tale e quale, con la propria carta di imballo ed il bigliettino, solo per evitare il prossimo Natale durante l’operazione di riciclo di restituire l’inutile oggetto a chi ce ne aveva fatto amorevolmente dono. Siamo qui, il più delle volte delusi, svuotati, dimentichi di ogni proposito e di quel gesto di pace che tanto ci aveva commosso. Il mondo è tornato quello di sempre, no, il mondo è stato quello di sempre, non è cambiato per nulla, è lì, di fronte ai nostri occhi, con i suoi dolori, le sue pene, la sua fame, le sue guerre, le sue morti e le sue miserie, le nostre miserie. Siamo noi che ipocritamente abbiamo voluto illuderci che così non fosse, noi che come sempre abbiamo voluto ignorare, più di quanto non facciamo abitualmente, quella realtà che abbiamo creato ed ora siamo qui, carichi di malesseri e confusi, volutamente incapaci di una qualunque riflessione, volutamente ignari della stupidità e dello spreco, ma pronti quasi subito a ricominciare ed a ripeterci con l’approssimarsi dell’anno nuovo con una nuova valanga di buoni propositi che si dissolveranno a breve ancor più velocemente dei botti della mezzanotte e dei fumi dell’alcool di tutti quei calici che innalzeremo per brindare a una vita, vecchia, stantia e ripetitiva. Ma…… gira il mondo gira nello spazio senza fine, gira sempre e senza il nostro consenso………. con noi o senza.
Dic 12, 2009 - poesie    8 Comments

Ora mi chiedo se

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Ed ora che
il bianco ha reso il nero
grigio,
ora che
il passo si è fatto più
indeciso.
Ora che
il ricordo sta sovrastando
il sogno, 
ora che
tutto è necessiità
e bisogno,
ora
osservando un orrizzonte
muto
ora
mi chiedo se, io abbia mai
vissuto
                                refusi
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