

se fossi un pellerossa, sì un indiano d’america, sioux, navaho, cheyenne, cherokee, apache o quant’altro, oggi questo sarebbe stato il mio nome. Vi capita mai di alzarvi così?? Alzarvi anche se potreste rimanere a letto perché non avreste null’altro da fare? Quando potreste girarvi tranquillamente dall’altra parte e riprendere il sonno, ma vi sentite costretti alzarvi ugualmente perché anche stare sdraiati a letto vi da fastidio? Vi crea ansia e un senso di soffocamento? In giorni così non vi resta altro che alzarvi e naturalmente lo fate col piede sbagliato. Per qualche minuto vi aggirate nervosamente per la casa, prendete il giornale ma lo gettate subito sul divano dopo uno sguardo superficiale sulla prima pagina, già le immagini presenti vi creano fastidio. Preparate una colazione con quella vaga sensazione dentro che vi manchi qualche cosa, che avete qualche cosa di importante da fare ma che vi sia sfuggito completamente dalla memoria. Così mentre trangugiate velocemente una tazza di caffè latte o di the con quattro biscotti, rimuginate in modo sconclusionato su quale sia la vostra posizione nel mondo, nella vita, senza arrivare da nessuna parte e la vostra sensazione di inutilità aumenta. L’aria all’interno dell’appartamento si fa pesante, irrespirabile e la considerazione che avete di voi stessi sembra assottigliarsi sino a svanire involandosi da sotto lo spiraglio della porta. Uscire, occorre uscire. Una corsa in bagno per una veloce lavata di faccia, niente barba, chi se ne frega, l’amor proprio sta parcheggiato altrove. Ci si veste con quello che capita sotto mano, si raggiunge il garage, si sale in macchina e sempre rimuginando vagamente su qualcosa di non ben definito si giunge alla periferia del paese, dove alle pendici dei monti, si snoda addentrandosi nei boschi il percorso vita. Parcheggiate l’auto, calzate un paio di scarpe da trekking sempre disponibili all’interno del baule e vi incamminate. Quasi di corsa vi addentrate velocemente nel bosco, con passi affrettati e brevi, come se dentro voi esistesse la necessità impellente di raggiungere quel pensiero perso nei meandri della memoria ed in pari tempo la paura di potersi smarrire lungo quella strada. Il respiro, affannoso pesante, quasi a scatti, segue il ritmo dei passi. Poi senza una ragione apparente lo sguardo inizia un percorso nuovo e diverso, si addentra nel bosco e si distrae, scrutando fra tronchi di pini, castani e cespugli. Scorge all’interno di una radura un ultimo ciclamino autunnale, ci si sofferma. Lo sguardo si fa più attento ed ecco accade che alla base di un tronco fra ciuffi d’erba appaiano, improvvisi quasi per miracolo, dei piccoli bianchi funghi. Là più avanti, proprio ai lati del sentiero, dei verdi ricci colmi di castagne non ancora mature caduti prematuramente dai rami. Lo sguardo spazia all’interno di quel verde e di quelle onbre, un altro fiore, delle bacche, qualche mora, una lucertola che furtiva fogge al vostro arrivo fra un leggero frusciare di foglie ed una variopinta farfalla volteggia in modo ineguale attirando l”attenzione. Il passo cambia, rallenta di ritmo e si allunga di portata, seguito dal respiro che si fa lento, profondo e misurato. Sul volto si disegna una smorfia che a tutta l’aria un sorriso sognante, e quel pensiero fuggente, quello che era causa dell nostro fastidio, della nostra ansia. Quello che si rincorreva nervosamente quasi fosse una verità perduta ed ineluttabile, scompare , cessa di esistere, forse perché non è mai esistito. Ci si ritrova così a camminare dentro al bosco quasi chiedendosi come ci si sia giunti, quale sia stata la ragione che ci abbia spinto a farlo, senza trovare una risposta, felici comunque di averlo fatto.
Quasi per caso mentre cercavo altro in you tube, mi sono imbattuto in questa canzone. No, non si tratta di una canzone dei miei tempi. Questa canzone appartiene ai tempi ed alla gioventù di mio padre e mia madre, eppure ascoltandola, mi sono sentito più vicino a lei che non a quanto viene prodotto, cantato e commercializzato oggi. Colpa degli anni immagino, no, non dei miei, di questi anni.
quanti ricordi, è ancora là, di colore verde oliva, nella sua custodia polverosa, fra gli ultimi residui di un trasloco da tempo compiuto. Scatoloni non ancora aperti, cassette musicali e video cassette con vecchie e stentoree registrazioni artigianali, libri che non trovano più una collocazione, tappeti che non si adattano all’arredamento, quadri privati di pareti e suppellettili di mobili, articolo vari. Un piccolo bazar dimenticato, oggetti inutili ma dai quali non ci si vuole separare. A ciascuno di essi è legato un attimo di vita, confuso nella memoria, o enfatizzato dal ricordo. Anche lei è là, fra le cianfrusaglie accatastate, dentro la custodia a fargli compagnia ancora una mezza risma di carta rimasta inusata, una confezione quasi intonsa di carta carbone, un nastro di ricambio, nero e rosso con l’inchiostro ormai rinsecchito dal tempo. Ricordi. Aprendo la custodia malandata sembra quasi di sentire l’odore di altri tempi salire dall’interno per riportarti a spazi lontani, mai dimenticati. Agli occhi della memoria appare vivida l’immagine del tavolo sopra al quale solevo porla prima accostare la sedia, introdurre il foglio dentro al carrello, battere sul primo tasto e poi, rimanere in attesa che la altre parole sgorgassero dalle dita come da una sorgente e fluissero li sulla carta per essere poi lette e comprese, come se quelle frasi appartenessero a un altro, a un altro tempo, a un altro mondo. Tlic tlic tlic tlic tlic tlic tlic, Olivetti Lettera 22