Giu 9, 2009 - esternazioni in prosa, genesi e nemesi, poesie    Commenti disabilitati su Il gioco degli ideali

Il gioco degli ideali

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Amici falsi,
nemici veri,
quattro punti cardinali,
l’uno all’altro opposti,
come altrettanti ideali.
La fiera del falso
nel grande circo del vero.
Nascosto
sotto una lapide bianca
l’ultimo uomo sincero
giace
con la verità stanca,
nel putrefacente abbraccio
di un amor mortale,
che l’assurdo gioco
di un folle ideale
con frammenti
di parole e d’ossa,
senza nulla chiedere
gli scavò la fossa.

I ragazzi della Via Palestro

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Cape Pessina

 

Parte seconda – Il Lancio

 

 

 

L’idea del razzo non andò persa col sonno della notte e già subito al mattino i primi che si ritrovarono nell’ampio cortile racchiuso fra i caseggiati cominciarono a porre le basi per quello che sarebbe stato l’avvenimento dell’anno. L’Aldo presente quella mattina, fu messo al corrente dell’idea e ne fu entusiasta, solo che, si convenne, per mandare in aria qualche cosa di più pesante di un barattolo sarebbe occorso molto più carburo che i soliti pochi grammi trafugati in officina. Così l’Aldo si ripromise di offrirsi volontario, il mattino successivo, per andare a ritirare presso il rivenditore il quantitativo occorrente per l’officina, ne avrebbe preso in più, sottraendolo poi per l’esperimento. Intanto si cominciò a valutare quello che avrebbe potuto essere l’aspetto del razzo. Loro non possedevano l’attrezzatura necessaria per costruirne uno come quello visto il giorno precedente in possesso alla scolaresca e poi visto il risultato, di certo non ne sarebbe valsa la pena, decisero così di ricorrere ad un manufatto già confezionato e si diedero da fare per reperirlo in loco. Pietro, figlio dell’imbianchino che aveva la sua piccola bottega e deposito all’interno del cortile li condusse al ripostiglio del padre dove in un angolo erano accatastate, latte e lattine di vernice vuote di varie dimensioni. Ma nessuna sembrava soddisfare le esigenze del gruppo, troppo piccola, troppo larga, troppo fragile. Quelle che potevano interessare per le dimensioni considerate accettabili non erano di forma cilindrica ma cubica e quindi da scartare, non avrebbero mantenuto la direzione in volo.
Fu così che l’attenzione dei ragazzini fu attratta dal deposito dei barili di olio, presenti all’esterno dell’officina. Vuoti e già privati della parte superiore in quanto riutilizzati dai meccanici quali deposito di scarti e limature metalliche. Alti all’incirca un metro e del diametro di una sessantina di centimetri, dall’aspetto solido con quei cerchi di rinforzo lungo la circonferenza. I loro occhi si riempirono di cupidigia nell’osservarli, poi si volsero ancora una volta verso l’Aldo, che cominciava ad avere qualche dubbio sull’effettiva necessità di fare quell’esperimento pensando che sarebbe stato poi considerato il maggiore responsabile dell’accaduto nel caso nefasto che le cose avessero preso una brutta piega, come infatti accadde. Con un sorriso a tutto campo e con l’indice teso nella direzione di un bidone ancora vuoto ed inutilizzato “Quello” esclamarono quasi all’unisono e l’Aldo non ebbe il coraggio di tirarsi indietro. Occorreva, si dissero, anche un materiale isolante che avrebbe impedito all’acqua di disperdersi nel terreno, considerando le che dimensioni del “razzo” erano di gran lunga superiori a quello del solito barattolo, sarebbe occorso molta più acqua e più tempo che non pochi secondi per consentire al gas di svilupparsi. Decisero allora di ricorrere a della carta catramata, disponibile presso il magazzino dell’imbianchino, il nylon a quei tempi risultava essere ancora sconosciuto.
Ora occorreva predisporre la base di lancio, di certo non si sarebbe potuto utilizzare la piazza d’armi, distava dalle abitazioni più di duecento metri e sarebbe stato impensabile credere di poter percorrere quel tratto di strada con bidone e carburo al seguito senza dare nell’occhio e suscitare la curiosità dei grandi che avrebbero potuto porre fine all’esperimento. Così, considerando che il loro cortile, lungo una sessantina di metri e largo trenta, chiuso su due lati da caseggiati di 5 piani e sugli altri da alte mura sotto le quali stavano, oltre al lavatoio, piccoli magazzini di artigiani, lontano da occhi indiscreti, poteva essere il luogo più adatto per poter effettuare il lancio il giorno successivo. Le case Pessina vennero così rinominate “Cape Pessina.”
La giornata giunse così al suo epilogo, nell’attesa spasmodica del giorno successivo, senza che il gruppo riuscisse a combinare nulla, vista l’attenzione prestata al progetto, non si riusciva a parlare d’altro, si facevano ipotesi, si sperava che il barile si sollevasse da terra per più che pochi metri. Non si voleva ripetere il fallimento visto il giorno prima, certo, gli altri non erano presenti, non avrebbero potuto a loro volta deriderli, ma era una questione di orgoglio, loro, il razzo lo avrebbero fatto volare. Non sapevano di quanto, per loro sfortuna, la realtà avrebbe superato la loro immaginazione. Così la giornata giunse alla fine senza che accadesse null’altro e solo a sera inoltrata alcune piccole ombre si mossero circospette nel buio del cortile dirigendosi verso l’officina per impossessarsi del barile e per farlo poi lentamente rotolare sino al lavatoio per nasconderlo dietro all’angolo di un muro.
Giunse così il fatidico giorno, trascorsa la mattina negli ultimi febbrili preparativi. Individuato il punto da cui il razzo avrebbe dovuto essere lanciato, più o meno equidistante dalle costruzioni, si era già provveduto a scavare una buca profonda una trentina di centimetri e larga altrettanto e la si era rivestita con la carta catramata, poi tutti a pranzo, il “lancio” era stato programmato per le prime ore del pomeriggio. Giunsero uno alla volta alla spicciolata, primo naturalmente il Sergio, padre putativo dell’esperimento, poi via via tutti gli altri. L’Aldo arrivò portando dentro un sacchetto di carta quasi un chilo di carburo, una cosa impressionante, l’odore che sprigionava faceva pizzicare il naso a tutti. Il barile che nel frattempo era stato forato al centro della sua superficie, mimetizzato dal nugolo di ragazzini venne portato verso la rampa di lancio, dove ad attenderlo c’era già il carburo posizionato nella buca ed un secchio, prelevato dal lavatoio, colmo d’acqua.
Tutto era pronto. L’acqua venne versata nella buca a coprire il carburo e subito sopra fu posizionato il barile, Sergio a cui, quale ideatore, era toccato l’onore di effettuare il lancio, pose il dito indice a coprire il foro sul barile e cominciò l’attera. Passati alcuni minuti, non molti per la verità, ma all’apparenza un eternità a causa della tensione, alcuni cominciarono a vociare ed ad incitare. “ Dai è ora, lascia e accendi. Dai” , Ennio auto promossosi speaker ed imitando quanto aveva visto fare agli altri ragazzi giorni prima, iniziò il conto alla rovescia: “ Dieci, nove, otto, ………..tre, due, uno” Sergio tolse il dito dal foro, avvicino il fiammifero eeeeeeeeeee “ploffff” il barile si sollevò di qualche centimetro, traballò su se stesso per poi ricadere nella posizione di partenza. Sul volto dei ragazzini la delusione era visibile, non erano meglio di quelli che alcuni giorni prima avevano deriso. Fu Aldo a ridare a tutti una speranza, più esperto in materia suggerì l’idea che il tempo per sviluppare gas necessario alla spinta, visto le dimensioni del barile ed il quantitativo di carburo, non fosse stato sufficiente, che ne occorresse molto di più e suggerì di coprire il foro con uno straccio ed una pietra, per impedire al gas di disperdersi e di aspettare più tempo. Così fu fatto. Nell’attesa si dedicarono tutti ad altre attività, più grandicelli seduti all’ombra a poca distanza dal barile iniziarono a giocare a carte, a “strop” un gioco in voga allora mettendo sul piatto delle puntate banconote da una o due lire, rimediate dal ferrivecchi con la vendita di rottami di metallo raccolti in giro ed i più piccoli ai “gnoli” altro gioco praticato a quei tempi con biglie di terracotta. Così tutti presi dalle nuove attività, stranamente dimenticarono il barile, che come un monumento attendeva al centro del cortile che qualcuno si ricordasse delle sua esistenza. A richiamare l’attenzione di tutti sul fatto fu involontariamente la mamma del Walter che affacciatasi al balcone si mise ad urlare “ Walter! Walter! A casa è l’ora della merenda.”, e se era l’ora della merenda per Walter voleva dire che era l’ora delle merenda per tutti, anche se alcuni avrebbero solo fatto finte di rientrare, certi che loro, la merenda, non l’avrebbero trovata, ma questo non si doveva sapere. Poi a determinare gli accadimenti successivi fu il Sergio, uno di quelli che non avrebbe trovato la merenda, che ricordandosi del barile in attesa, richiamò gli altri : “Aspettate – disse – vediamo prima se ora parte” I ragazzini, molti dei quali erano già giunti nei pressi dell’ingresso ai caseggiati, fecero dietro front e tutti quanti si assieparono attorno al barile. Non ci fu conto alla rovescia. Sergio prese un fiammifero lo accese, tolse la pietra e lo straccio dal coperchio del barile avvicinò il fiammifero e, fu la fine del mondo.
Un boato assordante riempì l’aria, in un susseguirsi di echi e di altri rumori che andavano sommandosi, quelli dei vetri delle prime due file di piani dei caseggiati che per lo spostamento d’aria andavano in frantumi, poi si seppe che anche alcune pareti divisorie di un paio di appartamenti siti al primo piano si erano danneggiate a causa del violento scoppio e dallo sbattere delle porte che a causa del caldo erano state lasciate aperte. La base del barile si frantumò in decine e decine di pezzi che schizzarono come schegge impazzite, per fortuna di quel gruppo di incoscienti, verso l’alto. La parte superiore del barile si innalzò diritta verso il cielo sino a scomparire alla vista. Non si seppe mai quale altezza avesse raggiunto, ma certamente alcune centinaia di metri, ne fu mai ritrovata, anche perché dopo l’accaduto, nessuno si diede la pena di cercarla. Difficile dare un esatto ordine cronologico al susseguirsi dei fatti, dopo il boato dell’esplosione, difficile ricordare l’esatto susseguirsi degli accadimenti. Giuseppe, il futuro seminarista; ma anche l’inventore dello specchio spia, quello che legato ad una cordicella ed abilmente manovrato con sapienti ondeggiamenti consentita di svelare i segreti celati al di sotto delle gonne delle ragazze; saltellava in tondo per il cortile ricoperto da strati di fango schizzati dalla buca al momento dell’esplosione urlando. “Mi hanno ucciso, mi hanno ucciso, sono un martire”. Nonno Lissi, il più anziano residente del caseggiato con i suoi ottant’anni suonati, un record per l’epoca, affacciato al balcone del terzo piano dal quale aveva seguito gli accadimenti, incurante del fatto che un pezzo di lamiera lo avesse sfiorato alla testa per andare a conficcarsi nella tenda soprastante, rideva ad applaudiva felice come un bambino. Gli altri ancora frastornati dall’accaduto rimasero lì indecisi se guardare in aria per seguire le tracce del coperchio del barile che si innalzava, o verso le finestre delle proprie abitazioni certi di vedere apparire le facce stravolte di genitori a minacciare le logiche conseguenze. Il padre dell’Aldo, affacciatosi alla porta dell’officina all’udire il boato e che resosi immediatamente conto dell’accaduto si era diretto a passi veloci verso il figlio, ancora con lo sguardo volto al cielo, per condurlo a calci nel sedere, reali e non metaforici, dal centro del cortile sino all’abitazione, sita al secondo piano di uno dei due caseggiati, sbraitando che per un mese non sarebbe più uscito di casa. Sorte che poi toccò a molti degli altri presenti anche se meno cruenta, solo scapaccioni. I più fortunati furono quelli che avevano entrambi i genitori occupati altrove al lavoro, avrebbero avuto il tempo per pensare a scuse e spiegazioni nella speranza di rendere meno dolorosa la conseguente punizione. I giorni seguenti fu un susseguirsi di attività frenetiche, sì perché per punizione al gruppo di ragazzini fu chiesto di riparare ai danni causati e visto l’entità degli stessi, non rimase loro che dedicarsi attivamente al recupero di materiali ferrosi di scarto, rovistando anche nelle proprie cantine e solai da poter vendere per poter racimolare la cifra necessaria ad acquistare vetri stucco e vernice e provvedere così in proprio alla riparazione di tutte le finestre danneggiate, mica potevano permettersi di ricorrere ad un vetraio. Così incidentalmente avevano trovato il modo per riempire parte del lungo, lungo tempo delle loro vacanze estive.

 

 

 

 

I ragazzi della Via Palestro

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Premessa

 

No, lungi da me l’idea di fare il verso al ben noto romanzo, è solo che da tempo rimuginavo l’idea di scrivere qualche cosa in merito alle avventure di un gruppo di ragazzi realmente esistiti che nel corso di diversi anni, a partire dal 1950 al 1965 circa, hanno vissuto e sono cresciuti in quella via Palestro che era a quei tempi la periferia sud della città di Como, ora zona residenziale a due passi dall’università cittadina..Voglio provarci, ma non ritenendomi capace di costruire un’intera storia, crearne un ossatura ed un percorso che ne tracci gli eventi in ordine cronologico mi limiterò per ora a narrare di alcuni fatti accaduti in quegli anni in brevi racconti. Ho pensato a quello che poteva essere il titolo che raccogliesse quanto sarei riuscito a scriverne, le alternative erano due, avrei potuto anche titolarlo, la Banda del Gufo nome col quale vennero poi ricordati in seguito anche se impropriamente i ragazzi di quel gruppo, ma questo fatto accade alla metà di quegli anni e non potrebbe essere associato all’intero gruppo. Come ho detto ero anche restio a titolare l’insieme “ I ragazzi della Via Palestro” proprio perché a qualcuno la somiglianza col ben noto romanzo avrebbe potuto apparire sospetta. Ma poi considerando che pochi sarebbero venuti a conoscenza di questi racconti, che quella via Palestro è una via reale e non di fantasia, che quei ragazzi sono esistiti e che molti di loro continuano ad esistere anche se ora in forma adulta, per ricordare quei tempi e per ricordare quei ragazzi mi è sembrato giusto lasciare che fosse proprio il nome della via a raccogliere il tutto o il poco che mi riuscirà di scrivere.

La via Palestro posta a sud della città di Como , era considerata a quei tempi come l’estrema periferia, oltre la quale il nulla, per molti, per loro un mondo misterioso da scoprire. Partiva dalla Piazza d’Armi dietro le caserme e scendeva giù, o saliva come sarebbe stato più corretto dire visto che la città era posta a nord, ma siccome la zona si trovava in posizione più elevata rispetto al centro città, noi si solava dire “ andiamo giù in centro o andiamo giù al lago” . Dicevo comunque che partendo dalle caserme “scendeva” verso la città per circa 300 metri in linea retta osservando quasi perfettamente l’asse sud nord, per giungere sino alle rive del torrente Cosia che scendeva dalla valle di Tavernerio in quel tratto in direzione ovest, qui la strada voltava quasi ad angolo retto seguendo il torrente e proseguiva ancora per un centinaio di metri per poi immettersi nel viale Giulio Cesare. Le case lungo la via a quei tempi erano poche, all’inizio della stessa vi erano alcuni stabilimenti tessili, poi sotto di essi una palazzina, più avanti ancora la via si incrociava con la Via Anzani perpendicolarmente e proprio qui sul lato destro iniziava il caseggiato che proseguiva giù quasi sino al torrente. Il caseggiato era composto da due fabbricati affiancati, il civico 3 e il civico 5 che con il caseggiato d’angolo alla loro destra posto in via Anzani e col grande cortile al suo interno componeva il gruppo delle case Pessina. Avrò occasione, spero, nel corso dei racconti di ampliare la descrizione dei luoghi ma per ora mi limito a questo. Una postilla, a qui tempi il mondo era diviso in due categorie, il loro del quale facevano parte tutti i ragazzi al di sopra dei 7 sino ai 15 anni, e quello dei “grandi” gli altri. Dedicato a tutti i “ragazzi” di quella via Palestro.

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I ragazzi della Via Palestro

Cape Pessina

 

Ovvero il primo razzo lanciato dall’Italia, all’insaputa di tutti naturalmente.

 

Parte prima – L’illuminazione.

 

Il fatto accadde tanti ma tanti anni fa e tutto ebbe inizio il giorno in cui un gruppo di ragazzini di età comprese fra gli 8 ed i 14 anni, raggruppati in un campo poco distante delle loro abitazioni stavano decidendo sul come impiegare nel modo più proficuo la giornata. La scuola era terminata da pochi giorni e si presentava per tutti un lungo periodo di vacanza, nessuno a quei tempi e da quelle parti sarebbe partito per il mare o la montagna, quindi occorreva programmare le cose da fare per evitare che divenissero ripetitive e noiose.La giornata era calda, ed era solo pomeriggio iniziato, da escludere quindi di organizzare una partita a pallone, la si sarebbe potuta fare le sera col fresco e poi ci sarebbero stati anche i grandi rientrati dal lavoro che non disdegnavano mai di dare quattro calci al pallone prima di rientrare a casa per la cena. Stavano appunto decidendo se dirigersi verso la Tarliscia, un bosco posto qualche chilometro a nord dalle loro abitazioni per verificare se fosse già ora di dare inizio alla raccolta di mirtilli, fragole di bosco,more e magari l’incontro fortuito con qualche fiorone, porcino di stagione; o incamminarsi lungo il torrente Cosia per risalirne la valle su sino al Navedano per fare qualche tuffo nelle vasche di acqua gelida con la speranza di raccogliere qualche gambero di fiume lungo il percorso che sarebbero serviti a variare la dieta alquanto monotona delle loro famiglie.
Stavano appunto decidendo sul da farsi, quando un vociare sulla strada che conduceva alla piazza d’armi, qualche centinaio di metri più a nord del luogo dove si trovavano, attrasse la loro attenzione. Incuriositi risalirono prontamente le piccola erta che li separava la strada e scorsero, una fila di ragazzini tutti ben messi ed ordinati da sembrare una scolaresca, tele era infatti, che accompagnati da un adulto, il maestro, scoprirono dopo, si dirigevano tutti eccitati proprio verso la piazza d’armi posta alle spalle della locale caserme di fanteria.La curiosità prese il sopravvento, e lentamente presero a seguire il gruppo, chiedendosi come mai una scolaresca fosse ancora riunita col maestro a fine dell’anno scolastico. Ennio che solitamente non temeva nulla e nessuno ed era di una sfacciataggine incredibile, in pratica il portavoce del gruppo, si affiancò al gruppo degli altri ragazzini e rivolgendosi a uno di questi chiese:

“ Dove state andando?”

Sembrava che non aspettassero altro, prontamente quello che sembrava il capo si girò verso di loro dicendo:

“Venite , venite a vedere di cosa siamo capaci, stiamo andando alla piazza d’armi per fare un esperimento, dobbiamo lanciare un razzo”

Solo allora il gruppo di ragazzini si accorse che l’adulto, il maestro, reggeva fra le mani un cilindro di ottone affusolato, a punta da un lato e con le alette sul lato opposto. Certo che visto così il razzo faceva la sua impressione. Avevano sentito parlare di razzi ma mai ne avevano mai visto uno così da vicino, anche se per la verità, ogni tanto, qualche cosa in aria, l’avevano mandata anche loro. Così decisero che quel pomeriggio lo avrebbero trascorso a guardare l’esperimento, il lancio del razzo, non senza una certa invidia per quei ragazzi.
Giunti sulla piazza, un terreno incolto di un centinaio di metri per lato con all’interno alcuni ostacoli per il percorso di guerra dove venivano addestrate le reclute, il gruppo di scolari, chiamiamolo così per differenziarlo, si pose al centro e pregando i curiosi di mantenersi ad una certa distanza, . “Poteva essere pericoloso” dissero, iniziarono a montare sul terreno una struttura in legno, base quadrata di circa un metro per lato, nella quale infilarono due altri paletti di legno in senso verticale di una cinquantina di centimetri, la base di lancio vennero poi a sapere, molto più tardi quando guardando la televisione videro i lanci dei primi vettori verso lo spazio.I preparativi fervevano, Ennio osservava il tutto e scuoteva la testa in senso di diniego,
“Se quel coso li vola, – disse rivolgendosi a Giuseppe, in predicato di entrare in seminario, aveva la vocazione diceva – mi faccio anch’io frate” e continuava a scuotere la testa.
Uno della scolaresca sentì il suo commento e seccato gli si rivolse contro:

“Cosa ne vuoi sapere tu, ignorante, noi abbiamo studiato tutto l’anno e fatto tutti i calcoli”

“Qualche cosa ne so, – rispose lui – visto che , qualche razzo, un po’ più piccolo, a volte lo facciamo partire anche noi”

Un’ espressione sorpresa si dipinse sulla faccia dell’altro, che ribatté:

“Ma come? – Per proseguire poi con un – Non ci credo”

Ennio sorrise, “ Come – disse – te lo spiegheremo dopo, quando il vostro baracco avrà fatto cilecca”

L’altro si allontanò inviperito verso il suo gruppo dando di spalle senza rispondere.
Il gruppo dei ragazzini intanto si era accomodato su di un muretto del percorso di guerra, distante una quindicina di metri ed osservava il fervere dei preparativi.
Il piccolo razzo era stato posto sulla pedana ed appoggiato ai legni di sostengo, venne tolta una vite e nel foro videro versare con un piccolo imbuto un liquido contenuto in una lattina rettangolare, poi la vite fu riavviata al suo posto. Sul fondo del razzo si potevano scorgere una serie di micce ordinatamente allineate sulla piattaforma. Il maestro si avvicinò all’ordigno e con una bastone su cui aveva posto un panno prima imbevuto di benzina e poi acceso diede loro fuoco allontanandosi  poi velocemente e facendo allontanare tutti gli alunni.
Le micce presero immediatamente fuoco, si poteva sentire lo sfrigolio della polvere sino a che consumate scomparvero all’interno del razzo. Passarono alcuni minuti e non accadde nulla. Ennio sogghignava osservando la scena, con l’espressione tipica di quello che aveva visto giusto, un “lo avevo detto io” gli si leggeva sul volto, l’invidia stava scomparendo e piano piano volti del gruppo di ragazzini su stava allargando un sorriso di divertito.
All’improvviso iniziò a sentirsi un sibilo, del fumo, prima piano piano e poi sempre più velocemente cominciò ad uscire dalla base del razzo, “Parte, parte” , urlarono in coro gli studenti saltando dalla gioia ed osservando con superiorità i ragazzetti quasi fossero mentecatti. Ma non partì. Dopo qualche minuto di fumo con un rumore sordo, come quello delle bottiglie del latte piene che cadendo vanno in mille pezzi; i ragazzini quel rumore lo conoscevano bene, troppo spesso gli era accaduto di sentirlo andando a fare la spesa per non ricordarlo. Dicevo con un “ploff” sordo il missile dorato si afflosciò su se stesso aprendosi sulla verticale lungo la linea delle saldature. Sulla faccia del gruppo di scolari si dipinse la delusione e la vergogna per la figura fatta davanti a quei ragazzini che avevano snobbato e che ora stavano ridendo a crepapelle alle loro spalle.
In silenzio raccolsero le loro cose, i resti del razzo e tristemente si avviarono sulla via del ritorno, con la voce di Ennio che li rincorreva ironicamente “ Ma come – gli urlò dietro – non volete sapere come li facciamo partire noi?”
La giornata era ormai trascorsa, il pomeriggio avanzato e il sole cominciava ormai a portarsi verso le coline, fra non molto il prato sarebbetornato all’ombra, i grandi sarebbero tornati dal lavoro e sino alla chiamata per la cena si sarebbe potuto giocare a pallone.
Ma mentre tornavano verso le case, Sergio fu colto da un illuminazione, guardò gli altri e con un espressione furba sul viso disse :
“Perché il razzo non lo facciamo partire noi?”
Il gruppo gli si fece attorno a capannello, la proposta aveva un che di interessante, avrebbe potuto riempire alcuni dei loro giorni di vacanza, nello studio dei particolari, nella ricerca dei materiali e nei preparativi. Aldo quel giorno non era con loro e lui era indispensabile per il reperimento della materia prima. Ne avrebbero discusso non appena fosse stato presente, ora giunti al prato che fungeva da campo da pallone, si dedicarono alla partita.
Quanto aveva affermato in precedenza Ennio a quell’altro gruppo di ragazzi e cioè, che anche loro riuscivano a far volare qualcosa, non era stata una sparata, ma la semplice verità. Da tempo uno dei loro divertimenti era quello di far partire verso l’alto dei piccoli barattoli di conserva che si innalzavano nel cielo per una decina di metri, ed il propellente di base era, associato all’acqua, il carburo. Sostanza chimica utilizzata nelle officine meccaniche, per questo era necessaria la presenza di Aldo, il fornitore della materia prima era lui, visto che suo padre era il titolare dell’officina meccanica presente all’interno del cortile dei due caseggiati dove tutti risiedevano.
Il gioco consisteva nel prendere una barattolo di conserve col fondo tagliato e forarlo sull’altro lato al centro. Poi si scavava una piccola buchetta nel terreno vi si poneva qualche grammo di carburo, vi si versava sopra dell’acqua e la si copriva col barattolo avendo l’accortezza di tenere un dito premuto sul foro. Il carburo a contatto con l’acqua genera un gas esplosivo, dopo qualche attimo bastava togliere il dito dal foro, avvicinare un fiammifero acceso e il barattolo sarebbe balzato prontamente in aria per diversi metri a causa dell’esplosione.

 

 

segue………………….. refusi

Mag 27, 2009 - ospiti    4 Comments

Poesia per una amica – da un amica

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Noi gente virtuale

Su tutti i mondi in libero volo

piacevoli sorrisi disegnati,

amici mai visti

e mai abbracciati

che sanno raccontare l’anima,

amori sconfinati

o rancori profondi

stringiamo un dolore

che non è apparenza.

                                   comparsa-paola

Mag 23, 2009 - poesie    6 Comments

Perchè

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Perchè
questa tristezza.
Perchè quest’ansia
e insieme questa noia.
Quest’attesa,
che rende
tutti i giorni uguali.
Pensieri vuoti,
spolpati scheletri.
Valve
di vuote conchiglie,
bianchi cippi funerei
e per ognuno
il mio nome e una data.
Dopo queste continue morti,
riuscirò mai
veramente a nascere?
                                               refusi
Mag 21, 2009 - pensieri    2 Comments

Signorinella

Quasi per caso mentre cercavo altro in you tube, mi sono imbattuto in questa canzone. No, non si tratta di una canzone dei miei tempi. Questa canzone appartiene ai tempi ed alla  gioventù di mio padre e mia madre, eppure ascoltandola, mi sono sentito più vicino a lei che non a quanto viene prodotto, cantato e commercializzato oggi. Colpa degli anni immagino, no, non dei miei, di questi anni.

Mag 16, 2009 - poesie    3 Comments

I sogni

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I sogni della notte.
muoiono,
stracciati ogni volta
da nuove albe.
Non tornano,
non tornano mai uguali,
cambiano,
si confondono miseramente.
persi
nel vortice delle abitudini.
I sogni non tornano,
vanno a raccontare ad altri
piccole povere gioie
disperse nelle illusioni
nel tumulto di giorni inutili
sprecati
di corsa.
                            ref
Mag 8, 2009 - racconti brevi    5 Comments

“Organisanseeeeeeeeee”

dallo spagnolo, ovvero “Organizzatevi
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Il termine viene da me preso per l’occasione da una storiella, un po’… spinta, che tempo fa circolava nei paesi sud americani,ma questa volta non è dedicata al nostro anfitrione, anche se ci potrebbe stare e credo che nessuno avrebbe nulla da dire ma e invece dedicata alla nostra sanità nazionale ed in particolar modo all’ASL. L’accostamento nasce dal fatto che questa mattina sceso in paese e recatomi all’ambulatorio medico per la richiesta di una ricetta, mi sento rispondere dal nuovo medico presente che lui la ricetta non me la può fare e che prima devo recarmi negli uffici dell’ASL e fare la richiesta relativa al medico curante. Spiego gli antefatti. Da tempo il mio medico, quello assegnatomi intendo, a causa dell’età e della salute precaria,  non era quasi più presente ed in questi ultimi anni sono stati diversi i medici che si sono avvicendati nell’ambulatorio per sostituirlo, così questa mattina, dopo avere atteso per oltre un ora il mio turno, non ho provato alcuna sorpresa nel ritrovarmi di fronte un nuovo medico. Lo stupore invece mi ha assalito quando alla mia richiesta della solita ricetta mi sento rispondere dal medico che lui non può farmela non essendo il mio medico curante….. Dunque, mi trovo sempre nel medesimo ambulatorio, in quello dove mi reco da 5 anni a questa parte, dove ho incontrato in questi anni sei medici diversi, senza contare quello presente e io non sono più un paziente. Al mio stupore mi spiega che il medico al quale ero stato assegnato è definitivamente andato in pensione e che lui non è il solito sostituto ma bensì un nuovo medico che ha preso il posto del precedente, ma badate bene come medico nuovo succede che i pazienti del precedente non gli vengono assegnati, che questi si ritrovano senza un medico e che per ottenerlo devono nuovamente recarsi all’ASL e fare la scelta……..  Che strano mi chiedo allora che ci faccia lui nell’ambulatorio del mio medico se non è il mio medico, mi chiedo che senso abbia doversi recare all’ASL per sceglierne uno nuovo….  lui naturalmente visto che da noi i medici sono due e l’altro da sempre gestisce l’altra metà dei pazienti del luogo e non è in grado di acquisirne di nuovi…. mi chiedo se non fosse stato più semplice ed automatico trasferire direttemente i pazienti da un medico all’altro visto che non esistono alternative… ed inoltre senza nessun preventivo avviso, senza alcuna comunicazione, nermmeno un cartello nella sala d’attesa,  e sì,  tanto noi pazienti abbiamo tempo, in alcuni casi un eternità. Lui nota il mio sguardo stupito e mi dice… “Sa mi spiace ma è la prassi….” Già, la prassi burocratica, occorre giustificare il numero elevato di dipendenti che altrimenti in un qualsiasi altro settore sarebbero decisamente in esubero,  poi ci si chiede dove vadano a finire i soldi spesi per la sanità, nella cura dei pazienti??????????? Naaaaaaaaaaaaaa, nel mantenimento di un esercito di mangia pane a tradimento.
Scusate?
La storiella dite …?
A sì…
Dunque, Argentina, festa a sorpresa sapete, quelle in cui gli invitati si presentano mascherati, quelle in cui dopo abbondanti libagioni, tipo baccanali, ad una certa ora vengono spente le luci e………………… e nel buio fra musiche soffuse ansiti e sospiri si alza forte una voce “Organisanseeeeeeeee”…. un attimo di silenzio generale, poi tutto riprende come prima. Passano una decina di minuti e poi ancora nel buio la voce.. “Organisanseeeeeeeee” ancora un attimo di suspence, poi ansiti e sospiri tornano a coprire la musica. Ma………. “Organisanseeeeeeeeeeeee” la voce torna a squarciare il buio della sala e a questo punto l’anfitrione, scocciato accende le luci e volgendo lo sguardo nel nugolo di corpi aggrovigliati sparsi su pavimento  e divani chiede ” Ma insomma si può sapere cosa c’è?”. Dalla massa informe si solleva a metà  uno, viso sconvolto, mano tesa in avanti, dito indice puntato… ” E sì,  organisanse, visto che in una ora che soi a qui, ho sfiorato a malapena una teta, e lo ciapao quatro volte in del cul!”

Organisanseeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeee

                                                                 refusi

ps. chiedo venia per la frase finale in uno spagnolo maccheronico ma era dolo per rendere l’idea

Mag 5, 2009 - genesi e nemesi, poesie    Commenti disabilitati su Poi giunge il giorno (Filo spinato)

Poi giunge il giorno (Filo spinato)

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Poi giunge il giorno

in cui si perde il filo

non quello del discorso,

la parola

da tempo ormai si è persa

nella gola ed anche l’eco

sommessa resta muta.

Si perde il filo,

il filo della vita,

ormai finito è il gioco

e la partita, non ha più senso

è solo una cosa vuota

è non importa come sia finita

se hai vinto o perso

non ha significato

e tutto il senso di ciò

che un tempo hai fatto

e tutto là

su quel filo spinato.

Mag 4, 2009 - poesie    6 Comments

tu, divveresti amore

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Ti guardo e penso,
sì, sarebbe bello.
Ti guardo
e già ti vedo,
già ti sento accanto
come se…
Ti guardo
e sento nascere
onde di primavera,
e dentro,
in spasmi
qualcosa che si strugge,
pensando che…
Ti guardo.
Occhi al futuro
creano
d’irreali sogni
vivide immagini.
Ti guardo
e il desiderio nasce.
Ti guardo e so!
Sì!
Sarebbe bello.
Ti guardo e so,
so che se il sogno
divenisse vero,
tu
diverresti amore.
                             refusi
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