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I ragazzi della via Palestro

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Lo strozzino
 

Nessuno ricordava chi fosse stato ad affibbiargli quel soprannome, ma tutti ne conoscevano bene le ragioni. Lui, quell’individuo, il grande, vestito del camice grigio, più per lo sporco che per il reale colore iniziale, con quella faccia gonfia, il naso rosso dal bere e con gli occhi porcini dentro a cispose palpebre. Lui, il solo ferrivecchi o straccivendolo della zona, lui per tutti i ragazzi del circondario non aveva un nome era “lo strozzino” e basta. In quegli anni di poco successivi al dopo guerra, la gente da quelle parti non è che se la passasse poi tanto bene, lavoravano tutti questo è vero, ma la situazione, i bassi stipendi, consentivano ai più una vita non certo agiata, decorosa sì, ma sempre con i bilanci familiari da far quadrare a viva forza ad ogni fine del mese non c’era assolutamente da scialare. Figuriamoci se in queste condizioni ai ragazzini fosse destinata la paghetta settimanale o mensile, per la verità la paghetta non sapevano neppure cosa fosse e mai si sarebbero immaginati che in futuro avrebbe potuto esistere una cosa del genere. Malgrado ciò, non e che poi se la passassero poi così male. Quei tempi, nonostante tutto, non avevano solo difetti ma anche dei pregi, la frutta ad esempio, era abbondante a disposizione di tutti e non costava nulla. No, non di certo sulle tavole, ma sulle numerose piante presenti nelle campagne dei dintorni, anche se i contadini, non sempre erano d’accordo con quei prelievi arbitrari e qualche dolorosa fucilata a sale, ogni tanto, mieteva la sua vittima. Durante l’estate al mattino ci si rinfrescava con le schegge di ghiaccio, quelle che si staccavano dalle canne che il venditore di ghiaccio ogni giorno forniva ai negozi ed alle famiglie della zona per mantenere il cibo in fresco. I frigoriferi a quei tempi e in quei luoghi erano ancora più rari delle oasi nel deserto. Nel pomeriggio poi, come giusta ricompensa alla fatica era possibile rimediare anche un piccolo cono gelato, che Michelino il gelataio, un piccolo uomo sempre gentile e sorridente, che ogni mattina scendeva giù dalla via Rienza, la strada che costeggiava la valle del torrente, per andare a vendere il suo prodotto in centro, dava come ricompensa a quei ragazzini che schierati ai lati del carrettino lo aiutavano nella via del ritorno a spingerlo su, sino in cima alla salita. C’era poi anche il modo di rimediare qualche soldo, a quei tempi tutte le cose avevano un valore, stracci, bottiglie, metalli, tutte avevano il loro prezzo di mercato presso i ferri vecchi e gli stracciai, e la maggior parte di esse erano reperibili anche se in minima quantità nella zona. C’erano vecchie case, semidistrutte dai bombardamenti della guerra, in corso di demolizione e rovistando fra quei ruderi era possibile trovare spezzoni di condutture metalliche abbandonate, o vecchi ed inutilizzabili rubinetti di ottone. Cominciavano a sorgere i primi cantieri edili per la costruzione di nuovi edifici e li era facile reperire tondini di ferro abbandonati perché di dimensioni troppo piccole per essere riutilizzati nelle costruzioni. Ogni tanto capitava di poter raccogliere del piombo, lungo il perimetro sud della piazza d’armi, al poligono di tiro dopo le esercitazioni che purtroppo non avevano luogo che una volta ogni tre mesi. Sulle rive del torrente poi vi era la “miniera”, o quella che così veniva chiamata, dove ogni settimana si poteva raccogliere un piccolo quantitativo di rame, metallo pregiato per i ragazzini a quei tempi. Infatti ad ogni fine settimana i dipendenti dell’Enel, proprio in uno spiazzo situato a lato del torrente, venivano per bruciare e privare così del rivestimento gli spezzoni di fili di rame avanzati dalla realizzazione degli impianti per renderlo commerciabile. Lo facevano lì, proprio sulle rive del torrente per poterlo poi raffreddare con l’acqua. Alla fine il rame veniva poi caricato nel cassone di un camioncino ed il lavoro non veniva di certo fatto a mano, bensì con del grossi forconi, va da se che una piccola parte del materiale rimanesse lì sparsa dentro il perimetro dello spiazzo, sommersa dalla cenere. Era così che, rovistando fra la cenere con le mani e raccogliendo il rame frammento per frammento, filo per filo, i ragazzini a fine settimana riuscivano a raccogliere uno o due chili di materiale, che venduto, avrebbe poi fruttato qualche soldo per il gelato e la bibita della domenica. E proprio qui entrava in gioco lui, lo strozzino. Tutte le volte che i ragazzi si presentavano con del materiale di recupero, perché altro non era, lui prima guardava il materiale, poi osservava in faccia i ragazzini, soppesava il materiale e poi se ne usciva immancabilmente con quella frase: “Dove lo avere preso? Lo avete rubato vero?” ed alle vivaci proteste dei ragazzini, rispondeva sempre “ Via, via so che lo avete rubato – poi si ficcava la mani in tasca per sortire qualche moneta, mai più di una cinquantina lire in tutto, che cacciava nelle mani di uno dei ragazzini, per continuare poi con un – andate, andate se no poi finisce che chiamo le guardie” come se lui, di buon cuore, avesse fatto loro un grande favore .
Così sempre ogni volta, da anni. Ma purtroppo non esisteva nessun altra soluzione visto che in tutta la zona non vi era nessun altro che praticasse quel tipo di raccolta e loro non avrebbero saputo a chi indirizzarsi perdendo anche quelle poche lire che riuscivano comunque di rimediare. Mai come in quel caso era veritiero l’antico detto “pochi maledetti e subito”. Quindi meglio poco che nulla anche se nella testa dei più da tempo si meditava, fantasticando come in sogno, la possibilità di una tremenda vendetta e, a causa di un paio di eventi fortuiti, l’occasione si presentò loro qualche tempo dopo. Accadde infatti che a pochi passi da dove risiedevano, in uno spazio prima abbandonato, venisse eretto un capannone e che all’interno iniziasse la propria attività un nuovo ferrivecchi. Il gruppo lo aveva visto subito, ma per un po’ di tempo non aveva osato entrarvi visto che sembrava destinato ad un commercio più consistente delle loro poche cose rimediate nelle raccolte. Sino a che un giorno, fattisi coraggio, dopo avere lavorato faticosamente per tutta la giornata in “miniera” ed avere raccolto un discreto quantitativo di rame ed averlo avvolto diligentemente in un paio di matassine, si erano decisi ed erano entrati per provare a venderle. Il grande presente li aveva osservati sorridendo aveva soppesato il rame fra le mani, lo aveva poi pesato sulla bilancia, quasi tre chili, aveva scorso il dito lungo la tabella sino alla voce che indicava: “Rame £ 350 – Kg.” ed aveva consegnato nelle mani dei ragazzini stupiti una banconota da mille lire, aggiungendo, “Quando avete altro, passate pure non fatevi problemi, i prezzi sono quelli della tabella”
Non avevano mai visto una cifra simile in tutta la loro pur breve vita, salvo che nelle mani dei genitori. Mille lire! Guardavano la banconota con gli occhi sgranati. La rigiravano fra le mani passandosela a vicenda per poi tornare a riprenderla increduli. Avevano scoperto l’America. Nei giorni a seguire, fu un avvicendarsi continuo fra i luoghi di raccolta ed il ferrivecchi e per molto tempo ancora sulle loro facce all’uscita si poteva notare dipinta, quell’espressione di felice stupore. Ma assieme alla gioia, dovuta alla possibilità di poter avere qualche soldo per le loro piccole cose, dentro loro montava anche una rabbia sorda contro quell’individuo che per anni si era approfittato di loro derubandoli, lo strozzino. Sempre più nelle loro teste maturava il desiderio di vendetta, confabulavano fra loro cercando di trovare una qualche soluzione che fosse la rivalsa definitiva per tutti i torti subiti, anche se non riuscivano a trovare nulla che potesse essere messo in atto per attuare la vendetta contro l’odiato strozzino. Sino a che un giorno verso la fine del mese di settembre l’occasione si presentò da sola ai loro occhi. Accade infatti che la Snam, l società che a quei tempi gestiva la distribuzione del gas metano per il riscaldamento domestico iniziasse in zona la costruzione della nuova rete. Cosi dopo avere scavato le buche per la posa delle condutture, vi scaricavano dentro i tubi di ferro lunghi all’incirca un otto metri e di una quindicina di centimetri di diametro saldandoli poi fra loro per poi tornare a ricoprirli di terra. Accadeva inoltre che alla fine del lavoro la sera i tubi non ancora ancora saldati venissero lasciati incustoditi all’interno delle buche aperte. Il lavoro era sempre osservato da quei ragazzini curiosi che oltre ad un vero interesse per quanto stava accadendo speravano anche di rimediare come capitava spesso un po’ di materiale di scarto da vendere. Fu così che una sera, sotto il loro sguardo attento, successe che gli operai terminassero il lavoro e se ne andassero a casa lasciando uno dei tubi dentro allo scavo senza averlo saldato. Sulle facce dei ragazzini apparve immediatamente un fugace lampo, si guardarono sorridendo, senza aver bisogno di alcuna parola, avevano pensato tutti la stessa cosa e con un cenno di assenso si diressero verso casa per la cena. Si ritrovarono tutti alle otto, ma proprio tutti, perché la cosa potesse riuscire occorreva essere in tanti. Attesero che si facesse buio per non essere visti, poi si calarono dentro la buca sollevarono il tubo, lo posarono sul bordo, risalirono, si disposero in fila indiana per tutta la sua lunghezza, si chinarono e all’unisono lo sollevarono. Poi in silenzio rasentando i muri per non essere scorti si diressero verso il magazzino dello strozzino. Lo trovarono che stava armeggiando con della merce, come li vide e vide il tubo che portavano gli occhi gli si riempirono di cupidigia, li fece entrare e fece loro posare il tubo per terra che, lungo com’era, non entrava tutto nel locale. Poi iniziò con la vecchia cantilena: “Lo avete rubato vero? Sono sicuro che questo lo avete rubato” sebbene fosse difficile da negare qualcuno tentò un timido accenno di diniego “ E’ caduto, è caduto da un camion che passava e noi lo abbiamo raccolto”. “Non ci credo, -incalzò lui – di certo questo lo avete rubato, andate o questa volta i carabinieri li chiamo davvero”.
I ragazzini si guardarono accennarono con le mani ad una timida richiesta di compenso, per rendere il fatto più credibile, e poi cacciati dalle urla dello strozzino corsero via nel buio della sera. Corsero sino alle loro case e qui giunti radunatisi all’interno del cortile scoppiarono in una sonora risata più per scaricare la paura e la tensione accumulata per quanto avevano architettato che per allegria. Poi iniziarono ad ipotizzare su quanto avrebbe potuto accadere il giorno seguente e si misero d’accordo sul da farsi, all’indomani ad osservare i lavori di posa e le reazioni all’accaduto si sarebbero presentati solo i più piccoli. Ormai si era fatto tardi e rientrarono tutti nelle proprie case, anche se quella notte, come si raccontarono poi, nessuno sarebbe riuscito a dormire, dissero “come accadeva solo la notte del Natale quando si aspettava il Gesù Bambino”. Il mattino seguente gli operai notarono la sparizione del tubo, si guardarono un po’ attorno esterrefatti, non era mai accaduto prima di allora un fatto simile, poi andarono al vicino bar e telefonarono ai carabinieri. Poco dopo i carabinieri giunsero sul posto, constatarono il fatto e presero a fare domande alla piccola folla dei locali che nel frattempo si era radunata, ma nessuno aveva visto ne sentito niente. Il tubo sembrava sparito nel nulla senza lasciare alcuna traccia. Quando fra i vari brusii si senti la vocina di Dante, un bambino di cinque anni che abitava proprio nell’appartamento laterale a fronte degli scavi “Visto….” cercava di dire mentre la madre lo strattonava all’indietro per sottrarlo all’attenzione. Ma ormai era tardi uno dei carabinieri lo aveva sentito e si era chinato su di lui per chiedergli “ Dimmi bambino, cosa hai visto?” ed il Dante ergendosi in tutti i suoi ottanta centimetri di altezza e facendo così salire l’orlo dei calzoncini corti, puntando il dito verso un gruppo di case lontane un trecento metri disse, “Visto uno col carretto, andato di la” Il carabiniere diresse li sguardo nella direzione indicata dal bambino, sorrise, fece un cenno al collega e insieme si diressero in quella direzione, “là” avevano già un conoscenza. Lo trovarono mentre, piegato sopra al tubo posto su di un cavalletto, con una sega in mano stava cercando di ridurlo a più ragionevoli dimensioni. Nel magazzino poi trovarono altri articoli di dubbia provenienza, così lo arrestarono per furto e ricettazione. Lo portarono via mentre urlava, “ Non sono stato io, i bambini! Sono stati i bambiniiiiii!” ma non fu creduto.
La storia fece un po’ di scalpore nella zona e se ne parlò per ancora per diverso tempo, e se qualcuno ebbe qualche sospetto su come si fossero svolti effettivamente veramente i fatti, non ne fece mai menzione. La vendetta aveva avuto successo ed aveva largamente ripagato il desiderio di rivalsa di quei ragazzini, che per anni e anni a venire, sganasciandosi dalle risate, le sere d’estate si raccontarono quella storia.

I ragazzi della Via Palestro

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Cape Pessina

 

Parte seconda – Il Lancio

 

 

 

L’idea del razzo non andò persa col sonno della notte e già subito al mattino i primi che si ritrovarono nell’ampio cortile racchiuso fra i caseggiati cominciarono a porre le basi per quello che sarebbe stato l’avvenimento dell’anno. L’Aldo presente quella mattina, fu messo al corrente dell’idea e ne fu entusiasta, solo che, si convenne, per mandare in aria qualche cosa di più pesante di un barattolo sarebbe occorso molto più carburo che i soliti pochi grammi trafugati in officina. Così l’Aldo si ripromise di offrirsi volontario, il mattino successivo, per andare a ritirare presso il rivenditore il quantitativo occorrente per l’officina, ne avrebbe preso in più, sottraendolo poi per l’esperimento. Intanto si cominciò a valutare quello che avrebbe potuto essere l’aspetto del razzo. Loro non possedevano l’attrezzatura necessaria per costruirne uno come quello visto il giorno precedente in possesso alla scolaresca e poi visto il risultato, di certo non ne sarebbe valsa la pena, decisero così di ricorrere ad un manufatto già confezionato e si diedero da fare per reperirlo in loco. Pietro, figlio dell’imbianchino che aveva la sua piccola bottega e deposito all’interno del cortile li condusse al ripostiglio del padre dove in un angolo erano accatastate, latte e lattine di vernice vuote di varie dimensioni. Ma nessuna sembrava soddisfare le esigenze del gruppo, troppo piccola, troppo larga, troppo fragile. Quelle che potevano interessare per le dimensioni considerate accettabili non erano di forma cilindrica ma cubica e quindi da scartare, non avrebbero mantenuto la direzione in volo.
Fu così che l’attenzione dei ragazzini fu attratta dal deposito dei barili di olio, presenti all’esterno dell’officina. Vuoti e già privati della parte superiore in quanto riutilizzati dai meccanici quali deposito di scarti e limature metalliche. Alti all’incirca un metro e del diametro di una sessantina di centimetri, dall’aspetto solido con quei cerchi di rinforzo lungo la circonferenza. I loro occhi si riempirono di cupidigia nell’osservarli, poi si volsero ancora una volta verso l’Aldo, che cominciava ad avere qualche dubbio sull’effettiva necessità di fare quell’esperimento pensando che sarebbe stato poi considerato il maggiore responsabile dell’accaduto nel caso nefasto che le cose avessero preso una brutta piega, come infatti accadde. Con un sorriso a tutto campo e con l’indice teso nella direzione di un bidone ancora vuoto ed inutilizzato “Quello” esclamarono quasi all’unisono e l’Aldo non ebbe il coraggio di tirarsi indietro. Occorreva, si dissero, anche un materiale isolante che avrebbe impedito all’acqua di disperdersi nel terreno, considerando le che dimensioni del “razzo” erano di gran lunga superiori a quello del solito barattolo, sarebbe occorso molta più acqua e più tempo che non pochi secondi per consentire al gas di svilupparsi. Decisero allora di ricorrere a della carta catramata, disponibile presso il magazzino dell’imbianchino, il nylon a quei tempi risultava essere ancora sconosciuto.
Ora occorreva predisporre la base di lancio, di certo non si sarebbe potuto utilizzare la piazza d’armi, distava dalle abitazioni più di duecento metri e sarebbe stato impensabile credere di poter percorrere quel tratto di strada con bidone e carburo al seguito senza dare nell’occhio e suscitare la curiosità dei grandi che avrebbero potuto porre fine all’esperimento. Così, considerando che il loro cortile, lungo una sessantina di metri e largo trenta, chiuso su due lati da caseggiati di 5 piani e sugli altri da alte mura sotto le quali stavano, oltre al lavatoio, piccoli magazzini di artigiani, lontano da occhi indiscreti, poteva essere il luogo più adatto per poter effettuare il lancio il giorno successivo. Le case Pessina vennero così rinominate “Cape Pessina.”
La giornata giunse così al suo epilogo, nell’attesa spasmodica del giorno successivo, senza che il gruppo riuscisse a combinare nulla, vista l’attenzione prestata al progetto, non si riusciva a parlare d’altro, si facevano ipotesi, si sperava che il barile si sollevasse da terra per più che pochi metri. Non si voleva ripetere il fallimento visto il giorno prima, certo, gli altri non erano presenti, non avrebbero potuto a loro volta deriderli, ma era una questione di orgoglio, loro, il razzo lo avrebbero fatto volare. Non sapevano di quanto, per loro sfortuna, la realtà avrebbe superato la loro immaginazione. Così la giornata giunse alla fine senza che accadesse null’altro e solo a sera inoltrata alcune piccole ombre si mossero circospette nel buio del cortile dirigendosi verso l’officina per impossessarsi del barile e per farlo poi lentamente rotolare sino al lavatoio per nasconderlo dietro all’angolo di un muro.
Giunse così il fatidico giorno, trascorsa la mattina negli ultimi febbrili preparativi. Individuato il punto da cui il razzo avrebbe dovuto essere lanciato, più o meno equidistante dalle costruzioni, si era già provveduto a scavare una buca profonda una trentina di centimetri e larga altrettanto e la si era rivestita con la carta catramata, poi tutti a pranzo, il “lancio” era stato programmato per le prime ore del pomeriggio. Giunsero uno alla volta alla spicciolata, primo naturalmente il Sergio, padre putativo dell’esperimento, poi via via tutti gli altri. L’Aldo arrivò portando dentro un sacchetto di carta quasi un chilo di carburo, una cosa impressionante, l’odore che sprigionava faceva pizzicare il naso a tutti. Il barile che nel frattempo era stato forato al centro della sua superficie, mimetizzato dal nugolo di ragazzini venne portato verso la rampa di lancio, dove ad attenderlo c’era già il carburo posizionato nella buca ed un secchio, prelevato dal lavatoio, colmo d’acqua.
Tutto era pronto. L’acqua venne versata nella buca a coprire il carburo e subito sopra fu posizionato il barile, Sergio a cui, quale ideatore, era toccato l’onore di effettuare il lancio, pose il dito indice a coprire il foro sul barile e cominciò l’attera. Passati alcuni minuti, non molti per la verità, ma all’apparenza un eternità a causa della tensione, alcuni cominciarono a vociare ed ad incitare. “ Dai è ora, lascia e accendi. Dai” , Ennio auto promossosi speaker ed imitando quanto aveva visto fare agli altri ragazzi giorni prima, iniziò il conto alla rovescia: “ Dieci, nove, otto, ………..tre, due, uno” Sergio tolse il dito dal foro, avvicino il fiammifero eeeeeeeeeee “ploffff” il barile si sollevò di qualche centimetro, traballò su se stesso per poi ricadere nella posizione di partenza. Sul volto dei ragazzini la delusione era visibile, non erano meglio di quelli che alcuni giorni prima avevano deriso. Fu Aldo a ridare a tutti una speranza, più esperto in materia suggerì l’idea che il tempo per sviluppare gas necessario alla spinta, visto le dimensioni del barile ed il quantitativo di carburo, non fosse stato sufficiente, che ne occorresse molto di più e suggerì di coprire il foro con uno straccio ed una pietra, per impedire al gas di disperdersi e di aspettare più tempo. Così fu fatto. Nell’attesa si dedicarono tutti ad altre attività, più grandicelli seduti all’ombra a poca distanza dal barile iniziarono a giocare a carte, a “strop” un gioco in voga allora mettendo sul piatto delle puntate banconote da una o due lire, rimediate dal ferrivecchi con la vendita di rottami di metallo raccolti in giro ed i più piccoli ai “gnoli” altro gioco praticato a quei tempi con biglie di terracotta. Così tutti presi dalle nuove attività, stranamente dimenticarono il barile, che come un monumento attendeva al centro del cortile che qualcuno si ricordasse delle sua esistenza. A richiamare l’attenzione di tutti sul fatto fu involontariamente la mamma del Walter che affacciatasi al balcone si mise ad urlare “ Walter! Walter! A casa è l’ora della merenda.”, e se era l’ora della merenda per Walter voleva dire che era l’ora delle merenda per tutti, anche se alcuni avrebbero solo fatto finte di rientrare, certi che loro, la merenda, non l’avrebbero trovata, ma questo non si doveva sapere. Poi a determinare gli accadimenti successivi fu il Sergio, uno di quelli che non avrebbe trovato la merenda, che ricordandosi del barile in attesa, richiamò gli altri : “Aspettate – disse – vediamo prima se ora parte” I ragazzini, molti dei quali erano già giunti nei pressi dell’ingresso ai caseggiati, fecero dietro front e tutti quanti si assieparono attorno al barile. Non ci fu conto alla rovescia. Sergio prese un fiammifero lo accese, tolse la pietra e lo straccio dal coperchio del barile avvicinò il fiammifero e, fu la fine del mondo.
Un boato assordante riempì l’aria, in un susseguirsi di echi e di altri rumori che andavano sommandosi, quelli dei vetri delle prime due file di piani dei caseggiati che per lo spostamento d’aria andavano in frantumi, poi si seppe che anche alcune pareti divisorie di un paio di appartamenti siti al primo piano si erano danneggiate a causa del violento scoppio e dallo sbattere delle porte che a causa del caldo erano state lasciate aperte. La base del barile si frantumò in decine e decine di pezzi che schizzarono come schegge impazzite, per fortuna di quel gruppo di incoscienti, verso l’alto. La parte superiore del barile si innalzò diritta verso il cielo sino a scomparire alla vista. Non si seppe mai quale altezza avesse raggiunto, ma certamente alcune centinaia di metri, ne fu mai ritrovata, anche perché dopo l’accaduto, nessuno si diede la pena di cercarla. Difficile dare un esatto ordine cronologico al susseguirsi dei fatti, dopo il boato dell’esplosione, difficile ricordare l’esatto susseguirsi degli accadimenti. Giuseppe, il futuro seminarista; ma anche l’inventore dello specchio spia, quello che legato ad una cordicella ed abilmente manovrato con sapienti ondeggiamenti consentita di svelare i segreti celati al di sotto delle gonne delle ragazze; saltellava in tondo per il cortile ricoperto da strati di fango schizzati dalla buca al momento dell’esplosione urlando. “Mi hanno ucciso, mi hanno ucciso, sono un martire”. Nonno Lissi, il più anziano residente del caseggiato con i suoi ottant’anni suonati, un record per l’epoca, affacciato al balcone del terzo piano dal quale aveva seguito gli accadimenti, incurante del fatto che un pezzo di lamiera lo avesse sfiorato alla testa per andare a conficcarsi nella tenda soprastante, rideva ad applaudiva felice come un bambino. Gli altri ancora frastornati dall’accaduto rimasero lì indecisi se guardare in aria per seguire le tracce del coperchio del barile che si innalzava, o verso le finestre delle proprie abitazioni certi di vedere apparire le facce stravolte di genitori a minacciare le logiche conseguenze. Il padre dell’Aldo, affacciatosi alla porta dell’officina all’udire il boato e che resosi immediatamente conto dell’accaduto si era diretto a passi veloci verso il figlio, ancora con lo sguardo volto al cielo, per condurlo a calci nel sedere, reali e non metaforici, dal centro del cortile sino all’abitazione, sita al secondo piano di uno dei due caseggiati, sbraitando che per un mese non sarebbe più uscito di casa. Sorte che poi toccò a molti degli altri presenti anche se meno cruenta, solo scapaccioni. I più fortunati furono quelli che avevano entrambi i genitori occupati altrove al lavoro, avrebbero avuto il tempo per pensare a scuse e spiegazioni nella speranza di rendere meno dolorosa la conseguente punizione. I giorni seguenti fu un susseguirsi di attività frenetiche, sì perché per punizione al gruppo di ragazzini fu chiesto di riparare ai danni causati e visto l’entità degli stessi, non rimase loro che dedicarsi attivamente al recupero di materiali ferrosi di scarto, rovistando anche nelle proprie cantine e solai da poter vendere per poter racimolare la cifra necessaria ad acquistare vetri stucco e vernice e provvedere così in proprio alla riparazione di tutte le finestre danneggiate, mica potevano permettersi di ricorrere ad un vetraio. Così incidentalmente avevano trovato il modo per riempire parte del lungo, lungo tempo delle loro vacanze estive.

 

 

 

 

I ragazzi della Via Palestro

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Premessa

 

No, lungi da me l’idea di fare il verso al ben noto romanzo, è solo che da tempo rimuginavo l’idea di scrivere qualche cosa in merito alle avventure di un gruppo di ragazzi realmente esistiti che nel corso di diversi anni, a partire dal 1950 al 1965 circa, hanno vissuto e sono cresciuti in quella via Palestro che era a quei tempi la periferia sud della città di Como, ora zona residenziale a due passi dall’università cittadina..Voglio provarci, ma non ritenendomi capace di costruire un’intera storia, crearne un ossatura ed un percorso che ne tracci gli eventi in ordine cronologico mi limiterò per ora a narrare di alcuni fatti accaduti in quegli anni in brevi racconti. Ho pensato a quello che poteva essere il titolo che raccogliesse quanto sarei riuscito a scriverne, le alternative erano due, avrei potuto anche titolarlo, la Banda del Gufo nome col quale vennero poi ricordati in seguito anche se impropriamente i ragazzi di quel gruppo, ma questo fatto accade alla metà di quegli anni e non potrebbe essere associato all’intero gruppo. Come ho detto ero anche restio a titolare l’insieme “ I ragazzi della Via Palestro” proprio perché a qualcuno la somiglianza col ben noto romanzo avrebbe potuto apparire sospetta. Ma poi considerando che pochi sarebbero venuti a conoscenza di questi racconti, che quella via Palestro è una via reale e non di fantasia, che quei ragazzi sono esistiti e che molti di loro continuano ad esistere anche se ora in forma adulta, per ricordare quei tempi e per ricordare quei ragazzi mi è sembrato giusto lasciare che fosse proprio il nome della via a raccogliere il tutto o il poco che mi riuscirà di scrivere.

La via Palestro posta a sud della città di Como , era considerata a quei tempi come l’estrema periferia, oltre la quale il nulla, per molti, per loro un mondo misterioso da scoprire. Partiva dalla Piazza d’Armi dietro le caserme e scendeva giù, o saliva come sarebbe stato più corretto dire visto che la città era posta a nord, ma siccome la zona si trovava in posizione più elevata rispetto al centro città, noi si solava dire “ andiamo giù in centro o andiamo giù al lago” . Dicevo comunque che partendo dalle caserme “scendeva” verso la città per circa 300 metri in linea retta osservando quasi perfettamente l’asse sud nord, per giungere sino alle rive del torrente Cosia che scendeva dalla valle di Tavernerio in quel tratto in direzione ovest, qui la strada voltava quasi ad angolo retto seguendo il torrente e proseguiva ancora per un centinaio di metri per poi immettersi nel viale Giulio Cesare. Le case lungo la via a quei tempi erano poche, all’inizio della stessa vi erano alcuni stabilimenti tessili, poi sotto di essi una palazzina, più avanti ancora la via si incrociava con la Via Anzani perpendicolarmente e proprio qui sul lato destro iniziava il caseggiato che proseguiva giù quasi sino al torrente. Il caseggiato era composto da due fabbricati affiancati, il civico 3 e il civico 5 che con il caseggiato d’angolo alla loro destra posto in via Anzani e col grande cortile al suo interno componeva il gruppo delle case Pessina. Avrò occasione, spero, nel corso dei racconti di ampliare la descrizione dei luoghi ma per ora mi limito a questo. Una postilla, a qui tempi il mondo era diviso in due categorie, il loro del quale facevano parte tutti i ragazzi al di sopra dei 7 sino ai 15 anni, e quello dei “grandi” gli altri. Dedicato a tutti i “ragazzi” di quella via Palestro.

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I ragazzi della Via Palestro

Cape Pessina

 

Ovvero il primo razzo lanciato dall’Italia, all’insaputa di tutti naturalmente.

 

Parte prima – L’illuminazione.

 

Il fatto accadde tanti ma tanti anni fa e tutto ebbe inizio il giorno in cui un gruppo di ragazzini di età comprese fra gli 8 ed i 14 anni, raggruppati in un campo poco distante delle loro abitazioni stavano decidendo sul come impiegare nel modo più proficuo la giornata. La scuola era terminata da pochi giorni e si presentava per tutti un lungo periodo di vacanza, nessuno a quei tempi e da quelle parti sarebbe partito per il mare o la montagna, quindi occorreva programmare le cose da fare per evitare che divenissero ripetitive e noiose.La giornata era calda, ed era solo pomeriggio iniziato, da escludere quindi di organizzare una partita a pallone, la si sarebbe potuta fare le sera col fresco e poi ci sarebbero stati anche i grandi rientrati dal lavoro che non disdegnavano mai di dare quattro calci al pallone prima di rientrare a casa per la cena. Stavano appunto decidendo se dirigersi verso la Tarliscia, un bosco posto qualche chilometro a nord dalle loro abitazioni per verificare se fosse già ora di dare inizio alla raccolta di mirtilli, fragole di bosco,more e magari l’incontro fortuito con qualche fiorone, porcino di stagione; o incamminarsi lungo il torrente Cosia per risalirne la valle su sino al Navedano per fare qualche tuffo nelle vasche di acqua gelida con la speranza di raccogliere qualche gambero di fiume lungo il percorso che sarebbero serviti a variare la dieta alquanto monotona delle loro famiglie.
Stavano appunto decidendo sul da farsi, quando un vociare sulla strada che conduceva alla piazza d’armi, qualche centinaio di metri più a nord del luogo dove si trovavano, attrasse la loro attenzione. Incuriositi risalirono prontamente le piccola erta che li separava la strada e scorsero, una fila di ragazzini tutti ben messi ed ordinati da sembrare una scolaresca, tele era infatti, che accompagnati da un adulto, il maestro, scoprirono dopo, si dirigevano tutti eccitati proprio verso la piazza d’armi posta alle spalle della locale caserme di fanteria.La curiosità prese il sopravvento, e lentamente presero a seguire il gruppo, chiedendosi come mai una scolaresca fosse ancora riunita col maestro a fine dell’anno scolastico. Ennio che solitamente non temeva nulla e nessuno ed era di una sfacciataggine incredibile, in pratica il portavoce del gruppo, si affiancò al gruppo degli altri ragazzini e rivolgendosi a uno di questi chiese:

“ Dove state andando?”

Sembrava che non aspettassero altro, prontamente quello che sembrava il capo si girò verso di loro dicendo:

“Venite , venite a vedere di cosa siamo capaci, stiamo andando alla piazza d’armi per fare un esperimento, dobbiamo lanciare un razzo”

Solo allora il gruppo di ragazzini si accorse che l’adulto, il maestro, reggeva fra le mani un cilindro di ottone affusolato, a punta da un lato e con le alette sul lato opposto. Certo che visto così il razzo faceva la sua impressione. Avevano sentito parlare di razzi ma mai ne avevano mai visto uno così da vicino, anche se per la verità, ogni tanto, qualche cosa in aria, l’avevano mandata anche loro. Così decisero che quel pomeriggio lo avrebbero trascorso a guardare l’esperimento, il lancio del razzo, non senza una certa invidia per quei ragazzi.
Giunti sulla piazza, un terreno incolto di un centinaio di metri per lato con all’interno alcuni ostacoli per il percorso di guerra dove venivano addestrate le reclute, il gruppo di scolari, chiamiamolo così per differenziarlo, si pose al centro e pregando i curiosi di mantenersi ad una certa distanza, . “Poteva essere pericoloso” dissero, iniziarono a montare sul terreno una struttura in legno, base quadrata di circa un metro per lato, nella quale infilarono due altri paletti di legno in senso verticale di una cinquantina di centimetri, la base di lancio vennero poi a sapere, molto più tardi quando guardando la televisione videro i lanci dei primi vettori verso lo spazio.I preparativi fervevano, Ennio osservava il tutto e scuoteva la testa in senso di diniego,
“Se quel coso li vola, – disse rivolgendosi a Giuseppe, in predicato di entrare in seminario, aveva la vocazione diceva – mi faccio anch’io frate” e continuava a scuotere la testa.
Uno della scolaresca sentì il suo commento e seccato gli si rivolse contro:

“Cosa ne vuoi sapere tu, ignorante, noi abbiamo studiato tutto l’anno e fatto tutti i calcoli”

“Qualche cosa ne so, – rispose lui – visto che , qualche razzo, un po’ più piccolo, a volte lo facciamo partire anche noi”

Un’ espressione sorpresa si dipinse sulla faccia dell’altro, che ribatté:

“Ma come? – Per proseguire poi con un – Non ci credo”

Ennio sorrise, “ Come – disse – te lo spiegheremo dopo, quando il vostro baracco avrà fatto cilecca”

L’altro si allontanò inviperito verso il suo gruppo dando di spalle senza rispondere.
Il gruppo dei ragazzini intanto si era accomodato su di un muretto del percorso di guerra, distante una quindicina di metri ed osservava il fervere dei preparativi.
Il piccolo razzo era stato posto sulla pedana ed appoggiato ai legni di sostengo, venne tolta una vite e nel foro videro versare con un piccolo imbuto un liquido contenuto in una lattina rettangolare, poi la vite fu riavviata al suo posto. Sul fondo del razzo si potevano scorgere una serie di micce ordinatamente allineate sulla piattaforma. Il maestro si avvicinò all’ordigno e con una bastone su cui aveva posto un panno prima imbevuto di benzina e poi acceso diede loro fuoco allontanandosi  poi velocemente e facendo allontanare tutti gli alunni.
Le micce presero immediatamente fuoco, si poteva sentire lo sfrigolio della polvere sino a che consumate scomparvero all’interno del razzo. Passarono alcuni minuti e non accadde nulla. Ennio sogghignava osservando la scena, con l’espressione tipica di quello che aveva visto giusto, un “lo avevo detto io” gli si leggeva sul volto, l’invidia stava scomparendo e piano piano volti del gruppo di ragazzini su stava allargando un sorriso di divertito.
All’improvviso iniziò a sentirsi un sibilo, del fumo, prima piano piano e poi sempre più velocemente cominciò ad uscire dalla base del razzo, “Parte, parte” , urlarono in coro gli studenti saltando dalla gioia ed osservando con superiorità i ragazzetti quasi fossero mentecatti. Ma non partì. Dopo qualche minuto di fumo con un rumore sordo, come quello delle bottiglie del latte piene che cadendo vanno in mille pezzi; i ragazzini quel rumore lo conoscevano bene, troppo spesso gli era accaduto di sentirlo andando a fare la spesa per non ricordarlo. Dicevo con un “ploff” sordo il missile dorato si afflosciò su se stesso aprendosi sulla verticale lungo la linea delle saldature. Sulla faccia del gruppo di scolari si dipinse la delusione e la vergogna per la figura fatta davanti a quei ragazzini che avevano snobbato e che ora stavano ridendo a crepapelle alle loro spalle.
In silenzio raccolsero le loro cose, i resti del razzo e tristemente si avviarono sulla via del ritorno, con la voce di Ennio che li rincorreva ironicamente “ Ma come – gli urlò dietro – non volete sapere come li facciamo partire noi?”
La giornata era ormai trascorsa, il pomeriggio avanzato e il sole cominciava ormai a portarsi verso le coline, fra non molto il prato sarebbetornato all’ombra, i grandi sarebbero tornati dal lavoro e sino alla chiamata per la cena si sarebbe potuto giocare a pallone.
Ma mentre tornavano verso le case, Sergio fu colto da un illuminazione, guardò gli altri e con un espressione furba sul viso disse :
“Perché il razzo non lo facciamo partire noi?”
Il gruppo gli si fece attorno a capannello, la proposta aveva un che di interessante, avrebbe potuto riempire alcuni dei loro giorni di vacanza, nello studio dei particolari, nella ricerca dei materiali e nei preparativi. Aldo quel giorno non era con loro e lui era indispensabile per il reperimento della materia prima. Ne avrebbero discusso non appena fosse stato presente, ora giunti al prato che fungeva da campo da pallone, si dedicarono alla partita.
Quanto aveva affermato in precedenza Ennio a quell’altro gruppo di ragazzi e cioè, che anche loro riuscivano a far volare qualcosa, non era stata una sparata, ma la semplice verità. Da tempo uno dei loro divertimenti era quello di far partire verso l’alto dei piccoli barattoli di conserva che si innalzavano nel cielo per una decina di metri, ed il propellente di base era, associato all’acqua, il carburo. Sostanza chimica utilizzata nelle officine meccaniche, per questo era necessaria la presenza di Aldo, il fornitore della materia prima era lui, visto che suo padre era il titolare dell’officina meccanica presente all’interno del cortile dei due caseggiati dove tutti risiedevano.
Il gioco consisteva nel prendere una barattolo di conserve col fondo tagliato e forarlo sull’altro lato al centro. Poi si scavava una piccola buchetta nel terreno vi si poneva qualche grammo di carburo, vi si versava sopra dell’acqua e la si copriva col barattolo avendo l’accortezza di tenere un dito premuto sul foro. Il carburo a contatto con l’acqua genera un gas esplosivo, dopo qualche attimo bastava togliere il dito dal foro, avvicinare un fiammifero acceso e il barattolo sarebbe balzato prontamente in aria per diversi metri a causa dell’esplosione.

 

 

segue………………….. refusi

Feb 14, 2009 - racconti brevi    5 Comments

Les amoureux de Peynet , retroscena

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(revival)

 

Li vedi timidi e impacciati, sulla panchina del parco, si tengono per mano, si guardano negli occhi, si dicono ti amo senza parole, con tutto il loro essere.Si sono conosciuti per caso un giorno, come tanti, come tutti, si sono guardati negli occhi e si sono sorrisi, all’unisono. Poi hanno cominciato a frequentarsi a parlare delle proprie esperienze, della propria visione della vita, dei propri desideri, dei propri sogni. Riscontrando che i desideri e i sogni erano gli stessi, le aspettative della vita comuni, così d’incanto l’amore era sbocciato reciproco nei loro cuori.

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Valentina

Di anni……….., carina, bionda, bruna o rossa. Impiegata, segretaria o commessa, gentile ed educata sorridente ed allegra, intelligente e colta. E’ contenta del suo lavoro, ha uno stipendio che le consente di vivere senza sacrifici, che le permette di avere e mantenere l’auto, di fare vacanze due volte l’anno e numerosi fine settimana, di abbigliarsi seguendo la moda che le aggrada, l’ultimo modello di telefonino, cene fuori, pub, discoteca. Vive con i suoi e la madre ancora l’accudisce, lava, stira, cucina, le prepara il letto, e l’adora.

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Valentino

Di anni……… tipo interessante, bruno biondo o rosso. Ragioniere geometra, bancario, un buon lavoro retribuito. Anche lui con il proprio stipendio si gestisce bene, auto, sportiva o suv, sport, palestra, vacanze, fine settimana, abbigliamento griffato, ristoranti, pub, stadio, discoteche. Naturalmente anche lui vive con i suoi, naturalmente anche lui ha una madre che lo adora e che pertanto lo serve abitualmente di tutto punto.

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Si amano, sono insieme da tempo, hanno trascorso numerosi fine settimana assieme, ed anche alcune vacanze, così, con tutto l’entusiasmo degli anni e dell’amore che li unisce decidono di formare una famiglia , sposarsi, rito religioso o civile, a seconda.
La ricerca della casa, i mobili, la lista nozze, l’abito della sposa, il tempo vola ed in un batter d’occhio si giunge al giorno del matrimonio. L’emozione all’altare (o in comune) nel momento del fatidico si, il contegno impettito ed orgoglioso dei padri, il pianto delle madri, l’immancabile casino di parenti ed amici con il lancio del riso all’uscita e via di corsa lasciando tutti alle spalle verso il coronamento del sogno,. Il viaggio di nozze, la luna di miele.
Il rientro, le prime entusiastiche spese al supermercato, i meno entusiastici risultati ai fornelli, non fa niente si esce a mangiare una pizza, si va fuori al ristorante, si………….riprova a cucinare sempre con i medesimi orripilanti risultati………..poi c’è il letto da fare, i pavimenti da pulire, i mobili da spolverare, i panni da lavare, da stirare……………..
Il mutuo da pagare, le tasse, la luce, il gas, l’ ici, le spese condominiali, la nettezza urbana, il bollo delle auto, le assicurazioni, la bolletta del telefono e dei telefonini………………….
Ed ha inizio la routine, hanno inizio le discussioni su cosa e chi debba fare, a cosa si debba rinunciare, ma soprattutto, chi debba rinunciare a qualche cosa.
Improvvisamente lei non è più così dolce, simpatica e comprensiva……………..
Improvvisamente lui non è più così brillante, romantico e affascinante……………..
Improvvisamente lei è petulante, noiosa, egoista…………….
Improvvisamente lui è megalomane, egocentrico, mammone…………..

Improvvisamente il bulletto del distributore di benzina, quello che non ti ha mai guardata negli occhi ma solo alla scollatura della camicetta o sotto l’orlo della gonna, quello che cercavi di evitare quando passavi a fare il pieno dell’auto, improvvisamente non è più coatto, ignorante, volgare, improvvisamente è simpatico, divertente…………

Improvvisamente, la figlia della portinaia, la bionda con gli occhi slavati e l’enorme seno da fattrice, che ti curava ogni qualvolta scendevi le scale, cercando di instaurare una conversazione e che ti costringeva tutte le volte a fermarti all’angolo dell’ultima scala ad aspettare l’attimo un cui si allontanava, od ad una uscita di corsa con un veloce cenno della mano ad indicare che andavi di fretta, improvvisamente non ti appare più oca, sciatta, insignificante, improvvisamente è diventata interessante, stuzzicante, appetibile………………

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Improvvisamente la panchina è rimasta deserta e si sono persi Les Amoureux de Peynet
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Feb 7, 2008 - racconti brevi    19 Comments

Settimana bianca – Incontri ravvicinati di un certo tipo

parte seconda
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Non è neppure necessario mettere la sveglia, da queste parti solitamente ci si sveglia prima che suoni, anche per il fatto che non ci si corica mai troppo tardi. Apro gli occhi e guardo mia moglie, anche lei è sveglia mi guarda e sorride, “Andiamo?” le chiedo, “Aspetta – mi risponde – sono da poco passare le sette e gli impianti non aprono prima delle nove, non ha senso arrivare troppo presto”. Ha ragione pertanto chiudo gli occhi e cerco di riprendere ancora il sonno. No, la cosa non funzione, dietro le tende, che coprono le finestre della camera, la luce filtra all’interno ed allora mi alzo, vado nel soggiorno scosto le tende ed osservo il cielo, peccato, quello che scorgo non mi entusiasma, una cortina uniforme di nuvole alte copre il cielo rendendo la giornata grigia. Strano le previsioni avevano annunciato il bel tempo e parlavano di annuvolamenti solo per la tarda giornata di martedì. Non fa nulla mi dico, non sarà per questo che rinuncerò alla prima sciata della stagione, lentamente, dopo avere acceso la tv ed averla sintonizzata su di un canale locale che trasmette i dati riguardanti il tempo, alle temperature e alle condizioni della neve comincio a preparare l’occorrente per la giornata. Tute, scarponi, mi assicuro di avere gli ski pass settimanali, preparo anche la macchina fotografica, nonostante la velatura del cielo che non mi entusiasma per nulla decido di portarla ugualmente. Nel frattempo si è alzata anche mia moglie, ci prepariamo scendiamo a colazione e poi preso l’occorrente sala in macchina per dirigerci agli impianti, potremmo farlo anche a piedi, la partenza del primo impianto, la cabinovia che sale da La Villa sopra alla Gran Risa sino ad arrivare al Piz La Ila, non dista più di duecento metri dall’appartamento. Ma duecento metri con gli scarponi ai piedi e gli sci in spalla diventano sempre una tortura, soprattutto la sera al rientro, ed è dagli anni precedenti che abbiamo deciso che il punto di partenza per le nostre escursioni sarebbe stato San Cassiano, una decina di chilometri più avanti dove un grande parcheggio affianca proprio una pista di discesa e dove basta percorrere pochi metri a piedi per giungere sulla neve delle piste calzare gli sci e poi dopo un  primo breve tratto di pista, giungere immediatamente alla cabinovia del Piz Sorega.  Si parte, lascio la macchina fotograficha in auto, la giornata non promette nulla di buono, riproponendomi di passare a riprenderla più tardi qualora il tempo dovesse migliorare. Partiamo, cautamente si affrontano le prime curve che scendono alla partenza dell’impianto, adagio per controllare la reattività delle gambe e il comportamento degli sci, tutto regolare si riacquista in un attimo quella confidenza che avevamo lasciato sulla neve quasi un anno fa durante l’ultima giornata e raggiungiamo la partenza dell’impianto che ci porterà su in alto ad iniziare la nostra prima giornata di sci. La gente a quest’ora è ancora poca e dentro la cabina ci ritroviamo solo noi, ripassiamo pertanto quello che in linea di massima abbiamo stabilito debba essere il programma della giornata. Non esageriamo, ci diciamo, è solo la prima giornata, non abbiamo fatto un allenamento specifico pertanto evitiamo le piste troppo impegnative, limitiamoci a riprendere confidenza con la neve e con i movimenti. Programma puntualmente disatteso dai fatti. Siamo giunti sulla cima, malgrado il grigiore della giornata ed il fatto di averlo gia visto innumerevoli volte,  il panorama che si apre davanti ai nostri occhi è qualche cosa di irreale di magico, è una cosa che ti riconcilia con la vita e che ti fa capire come sempre sia degna di essere vissuta. Ora si comincia davvero, le prime curve ampie e rotonde lente, misurate con una particolare attenzione ai movimenti lungo il pendio della pista, poi i movimenti si fanno più veloci il raggio delle curve si accorcia mentre ne aumenta la frequenza, via giù molla, il desiderio di andare prende il sopravvento e manda a farsi benedire qualsiasi programma o decisione presa in precedenza, giù, andiamo giù. La neve, è neve naturale,  fresca, niente a che vedere con quella artificiale è soffice e compatta allo stesso tempo, scivola sotto agli sci con un leggero sussurro quasi ti volesse accompagnare misurando il tuo respiro ad ogni movimento, l’aria ti batte sulla faccia, ti spettina i capelli all’indietro, ad all’inizio malgrado gli occhiali ti fa lacrimare leggermente gli occhi. Non fa per nulla freddo la temperatura è l’ideale per sciare anche di prima mattina, di poco inferiore allo zero. Siamo arrivati alla fine della pista, ci ritroviamo alla partenza della seggiovia che salendo sopra la Bamby ci porterà al Piz la Ila, ci guadiamo e sono i nostri occhi a sorridere.
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Comincia il carosello, si sale e si scende in continuazione alternando impianti di risalita e piste, ci si ferma un attimo per un caffè alla Brancia, luogo di sosta quasi abituale e poi giù verso Corvara lungo la pista che conduce diritta in paese. La partenza delle cabinovia che sale a Piz Boè è affollata, la gente ora comincia ad arrivare numerosa e la ragione in più è che si trova proprio sul tracciato del Sella e Ronda, il giro dei passi che, lungo un tracciato quasi circolare, si snoda lungo tutte le piste che costeggiano il gruppo Sella, affacciandosi sempre su paesaggi maestosi. Comunque l’attesa non è lunga, scendiamo lungo la pista opposta cercando di evitare i gruppi di turisti che si affollano lungo il percorso. Nessuno che arrivi da queste parti vuole rientrare a casa senza poter raccontare di avere effettuato il mitico tracciato, con tutto quello che questo comporta, gente che a malapena si regge sugli sci che si avventura su piste dove anche sciatori esperti potrebbero trovare delle difficoltà, intralciando gli altri ed  alcune volte ostruendo le piste,  abbarbicati lungo il percorso, ad ogni cambio di pendenza, come lunghe code di turisti giapponesi in gita. Divenendo così un pericolo per se ma soprattutto per gli altri. Troppa folla su queste piste, decidiamo quindi di tagliare verso una pista laterale, è incredibile come possano verificarsi certi cambiamenti, la pista che rientra verso il passo di Campolongo e che poi tramite un altro impianto ci condurrà di nuovo su al Pralongia e poi verso l’Armentarola è deserta, la neve quasi intatta, solo qualche traccia di pochi sciatori che sono scesi in precedenza. Nel frattempo il vento in quota ha spazzato definitivamente il velo di nubi che lo copriva e scendere lungo la pista è come sciare in paradiso in mezzo a verdi pini  che la costeggiano, nel  silenzio quasi assoluto rotto dal rumore del vento fra i capelli e del leggero fruscio della neve che scivola sotto gli sci.  Viene da chiedersi quanti di questi sciatori, lo facciano per il piacere di sciare in  posti bellissimi e quanti invece lo facciano, come purtroppo è d’uso ai nostri tempi,solo per poter raccontare ad amici e conoscenti di averlo fatto. Risaliti sul versante opposto controlliamo l’ora, manca poco a mezzogiorno, decidiamo quindi di dirigerci nuovamente verso S.Cassiano per  recuperare la macchina fotografica che avevamo lasciato nell’auto. Lungo l’ultima pista che porta verso il parcheggio ci fermiamo a mangiare qualche cosa, un piatto di pasta, non si deve mai esagerare se si ha l’intenzione di continuare a sciare nel pomeriggio e la pasta è l’unica cosa che. pur saziando. non appesantisce ma che mette a disposizione nuove energie da consumare nel corso della  giornata.  Si termina il pasto con un caffè e con una grappa al mirtillo, quasi d’obbligo da queste parti, poi  in pochi attimi si raggiunge il parcheggio a lati della pista, si recupera la machina fotografica e poi di nuovo su,  sulle piste, ma con più calma, con numerose soste per scattare le foto al paesaggio che come un anfiteatro ci circonda. Sono ormai le tre quando raggiungiamo nuovamente l’auto, togliamo gli scarponi e ci dirigiamo a valle, abbiamo deciso di passare all’Azienda autonoma di soggiorno di Corvara, durante le passate vacanze estive avevo scorto nella sala un paio di pc e vorrei sincerarmi se si tratti o meno di un Internet point, ne avrei bisogno per il giorno successivo. Non si tratta di un Internet point purtroppo, mi spiegano che sono relativi solo alla ricerca ed alla prenotazione di alberghi. Peccato, ormai ci contavo, facciamo incetta di depliant turistici relativi alla prossima estate e rientriamo nell’appartamento. Qui dopo una doccia calda restiamo un paio d’ore sdraiati sul letto a smaltire le tossine accumulate e poi fuori, sempre alla pizzeria, che ho dimenticato di dire è anche un ottimo ristorante. Un antipasto di speck, con cetrioli e rafano e a seguire una bella Wiener schnitzel (tipo cotoletta alla milanese) con patatine fritte e salsa di mirtillo rosso, una leccornia da queste parti. Poi a letto, domani sarà una nuova giornata speriamo altrettanto proficua, anche se le previsioni del tempo annunciano nuvole e nevischio in quota, beh si vedrà.
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(segue)
Set 25, 2007 - racconti brevi    15 Comments

Gran mercato delle carni

901c5afb36cd1418ddb8af473be37fd1.jpg La giornata è bella e calda, da un paio di giorni siamo entrati nell’autunno, ma oggi il tempo non lo da a vedere, la piazzetta del paese è ancora affollata di turisti, così anche noi ci accostiamo al terrazzo del bar e prendiamo posto ad un tavolino per il rito giornaliero del caffè pomeridiano. La terrazza è affollata per la maggior parte da turisti, tedeschi, inglesi, olandesi, americani, sì quest’anno il turismo da queste parti è aumentato ulteriormente. L’utilizzo a cui è stato destinato ultimamente il lago quale set cinematografico e la presenza sulle sue sponde di personaggi famosi, ne hanno diffuso l’immagine in parecchi luoghi del mondo contribuendo in modo notevole all’incremento del turismo. Ordino il caffè, e nell’attesa come sempre volgo lo sguardo attorno, osservando il panorama sempre uguale ma sempre diverso e  le variegate coppie di turisti divertendomi ad indovinarne dall’aspetto, dall’abbigliamento ma soprattutto dall’atteggiamento e dalle consumazioni i luoghi di provenienza.  Ci sono gli olandesi solitamente giovani coppie in maglietta, bermuda e infradito ai piedi, intenti a bersi la birra, i tedeschi in questo periodo ormai fuori stagione sono quasi tutti coppie di pensionati benestanti, gli uomini con la birra e le donne con l’immancabile cappuccino. Gli inglesi anche loro pensionati per la maggior parte ma distinguibili immediatamente per quel loro abbigliamento stile coloniale ed il cappello di paglia in testa di fronte al loro immancabile the pomeridiano e gli americani abbigliati come se di fronte a loro si aprissero le bianche le spiagge delle Haway. Sono tutto preso da questo mio abitudinario, quanto singolare passatempo quando ne vengo distratto da una nuova coppia in arrivo che cattura tutta la mia attenzione. Lui non è vecchio ad occhio e croce potrei definirlo attorno ai 40 anni, ma e piccolo grasso i capelli biondo sporco leccati all’indietro con della brillantina, gli occhi piccoli e cisposi a stento si scorgono infossati come sono sotto le pieghe del grasso del viso. Tutto in lui è volgare l’aspetto, l’espressione e come scoprirò fra poco anche il comportamento, i gesti e la voce. Indossa pantaloni bianchi sotto ad una maglietta anch’essa bianca che lo fascia come una pellicola aderente evidenziando in modo grottesco le larghe pieghe dell’adipe quasi fosse il budello di un salame insaccato. Scosta la sedia dal tavolino trascinandola, facendola stridere sul lastricato e facendo sobbalzare di soprassalto gli avventori seduti al tavolino accanto, poi  siede pesantemente facendo stridere ancora  la sedia metallica ma senza provocare nessun sobbalzo, gli avventori del tavolo accanto, in modo distaccato quasi indifferente si erano alzati in precedenza andando ad accomodarsi ad un tavolino lontano. Poi alza il braccio mostrando il copioso alone di sudore che sotto le ascelle impregna la maglietta, un braccio che ricorda la pubblicità di un cotechino, e di scatto in modo rumoroso ed imprevisto schiocca più volte le dita per richiamare l’attenzione del cameriere.
Lei, alta bionda capelli lunghi sciolti sulle spalle, occhi azzurro chiari, esile, pallida anzi no, eburnea, carina, anzi bella oserei dire, indossa una gonna beige al ginocchio, camicetta di uguale  colore e sandali cuoio, sembrerebbe uscita dalla vetrina di un negozio se non fosse per quel suo atteggiamento impacciato, quasi impaurito, si guarda attorno spaesata, esita a sedersi poi lo fa, adagio mantenendo la gambe unite sotto al tavolino con le mani sulle ginocchia a tenere l’orlo della gonna, vent’anni non di più. Nel frattempo arriva il cameriere, lui trasmette l’ordinazione, “Vodka”, il cameriere  si volge verso la ragazza  ma lei china il capo, contemporaneamente il gesto dell’uomo è eloquente, due dita alzate ed un movimento secco, come a dire vai ho già deciso io.  Il mio sguardo e fisso sulla ragazza, mi chiedo quali siano le ragioni i motivi che possano avere assemblato una copia così diversa e non me ne rendo conto ma il mio sguardo si sofferma a lungo sulla ragazza, l’attenzione che le rivolgo è decisamente eccessiva, lei se ne accorge, alza gli occhi dal tavolino mi guarda e forse legge dentro alla mia espressione quella che è la mia domanda, arrossisce e volge il viso verso terra, poi con un movimento del capo, gettando indietro i capelli, con un gesto improvviso, quasi di sfida,  torna spavalda a fissarmi. Imbarazzato le sorrido, cercando di dare al mio viso un espressione contrita,  cercando così di chiederle scusa per quell’eccessiva attenzione non richiesta, sì, credo che il messaggio sia giunto, sbatte le palpebre piega un attimo le labbra e volge gli occhi altrove. Anch’io, mi sforzo di guardare verso il lago, di distrarre la mia attenzione de lei e dal suo improbabile compagno,ma è un secco “Niet”,  pronunciato ad alta voce a farmi volgere nuovamente gli occhi verso quel tavolo per notare cinque wurstel allacciarsi come i tentacoli di un polipo attorno alla bottiglia di vodka, strapparla dalle mani del cameriere e posarla con violenza sul tavolo, per ripetere poi ancora quel gesto con la mano a mo’ di commiato. Mio malgrado mi vedo quasi costretto ad osservare quell’uomo che di seguito alza con la mano il bicchiere e ne  ingoia in un sol fiato il contenuto, indicando poi col dito l’altro bicchiere alla ragazza ed invitandola a bere, lei allunga la mano riluttante, solleva il bicchiere lo porta alle labbra chiude gli occhi e lentamente beve. Nemmeno il tempo di posare il bicchiere sul tavolo che il bianco pachiderma, afferrata la bottiglia riempie nuovamente i bicchieri facendone traboccare il liquido, ingoia il contenuto del suo e con un gesto imperioso indica alla ragazza di fare altrettanto. Disgustato pago il caffè e con mia moglie, mi allontano, non ho il coraggio di continuare ad assistere a quella scena, m’incammino così lungo il lago comunque senza smettere di pensare a quella ragazza,  senza smettere di chiedermi per quale ragione una ragazza come quella debba sottostare al volere di una persona cosi spregevole. Più tardi lungo la via del ritorno, incrocio ancora la strana coppia, che a bordo di una rossa Ferrari  F430 targata Montecarlo si allontana sul lungo lago.

Set 24, 2007 - racconti brevi    13 Comments

Vita

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E’ una storia iniziata nell’ormai lontano 19 marzo 1947,
e ancora, sto raccontandomi………………

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Set 21, 2007 - racconti brevi    18 Comments

Fotoromanzo

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Prima striscia
Vignetta numero uno

Autunno, imbrunire, una strada di periferia, un marciapiede che costeggia la strada affiancato da un muro grigio, grigio come tutto quello che appare, anche le poche auto parcheggiate sui bordi, sono vecchie, stanche, sporche e grigie, grigie come quella giornata dove il sole ha perso la propria battaglia con la nebbia e dove neppure le foglie d’autunno decorano la via col loro bruno colore, gli alberi sono solo un ricordo lontano. La strada è deserta fatta eccezione per un gatto che lentamente si avvia verso dove……

Prima striscia 
Vignetta numero due

In fondo alla strada appare una figura, si avvicina a passo svelto, è un uomo che probabilmente rientra a casa dopo una giornata di lavoro, indossa una giacca un cappello e una sciarpa per proteggersi dalla prime avvisaglie di freddo. Nulla nei suoi pensieri, solo il desiderio di fare in fretta, di rientrare fra quelle quattro mura silenziose che chiama casa, ascoltare le notizie del telegiornale alla televisione, prepararsi una cena calda e veloce per sdraiarsi poi sul divano chiudere gli occhi e sognare una vita diversa.

Prima striscia
Vignetta numero tre

Un rintocco di tacchi che battono ritmicamente sul lastricato, affrettati, nervosi, si intendono quasi in simultanea dalla direzione opposta. E’ una donna, cammina rasente il muro, la figura avvolta il un soprabito, i capelli sciolti sulle spalle, ha gli occhi bassi, fissi verso terra. quasi fosse intenta a leggere invisibili parole tracciate sul lastricato del marciapiede. Anche lei da l’impressione di avere lasciato da poco il lavoro, e che stia rientrando a casa, ripetendo instancabilmente la routine di tutti i giorni.
Seconda striscia
Vignetta numero uno

Quel rumore di passi che giunge improvviso e distinto alle orecchie distraggono l’uomo dai propri pensieri, lo sguardo prima perso nel grigiore o all’inseguimento di un remoto pensiero, volge verso il rumore. Una donna, ne scorge la figurina ancora lontana, avanza verso di lui lungo la strada e quel pensiero perso nel grigio per un’arcana ragione ora si addentra nella fantasia, ci si perde e immagina. Immagina un volto carino,  due occhi vivaci, due labbra sorridenti ed una voce gentile che risponda al saluto.

Seconda striscia
Vignetta numero due

Anche la donna ha scorto l’uomo, istintivamente il suo passo rallenta, un brivido la percorre, il pensiero di alcuni spiacevoli fatti di cronaca recentemente accaduti le attraversano la mente, volge lo sguardo attorno alla ricerca di altre eventuali presenze, nessuno, la tentazione di traversare la strada è forte, ma si trattiene, si sforza di scorgere per quanto le sia possibile data la lontananza i lineamenti dell’uomo e prosegue nel suo cammino.

Seconda striscia
Vignetta numero tre

Ora la donna si è fatta più vicina, è l’uomo riesce a vederla in viso, bruna sui trent’anni, bella a suo modo di vedere, la osserva cercando di dare al proprio volto un espressione distaccata, pensosa e di mantenere lo sguardo fisso come se stesse osservando qualche cosa oltre, e sogna. Sogna il saluto e una stretta di mano, sente la sua voce proferire distratta un invito a fare due passi assieme, prendere un caffè e scambiare due parole per chiudere quella giornata in un modo diverso e magari aprire le prossime in un modo diverso. Sente la voce di lei rispondere affermativamente e si vede prenderla sotto braccio per andare altrove, fuori dal grigio……….

Terza striscia
Vignetta numero uno

Il volto dell’uomo ora le è visibile, è giovane, ben messo, con  l’espressione distratta di chi stia rimuginando i propri pensieri, o si sia perso lungo altre strade e questo la rassicura. Così cercando di non darlo a vedere continua ad osservarlo mentre le si avvicina, e nella sua testa ora si affacciano ipotesi più tranquillizzanti. Immagina che l’uomo la saluti e che le sorrida, immagina poi che con una qualche scusa cerchi di instaurare una conversazione, che la inviti a bere qualche cosa prima del rientro a casa, per rendere quella giornata diversa, per andare oltre il grigio,  per entrare nel colore…….

Terza striscia
Vignetta numero due 

L’uomo ora e quasi all’altezza della donna, ma il suo sguardo rimane fermo, fisso su un’inesistente direttiva, perso all’inseguimento del sogno, incapace di provare a renderlo realtà. Le labbra serrate in un espressione annoiata ed indifferente stroncano quel tentativo di saluto che la mente aveva immaginato, soffocandolo sul nascere, i suoi occhi per un solo istante si ribellano, si fissano per un piccolo attimo fuggevoli sul volto della donna, ma è solo un attimo e poi immediatamente tornano a fissare il vuoto quasi che quel piccolo, istintivo gesto gesto sia stato troppo doloroso.

Terza striscia
Vignetta numero tre 

Ora le è quasi di fronte, lei vorrebbe guardarlo in faccia regalargli un sorriso, è questo e quanto avviene, ma solo nel suo pensiero, visto che il suo capo si abbassa se possibile ancora di più, che le sue labbra si stirano in un espressione altera, che i suoi occhi tornano a rincorrere, invisibili parole tracciate sul marciapiede, ed è già oltre.

Quarta striscia
Vignetta numero uno 

Il ticchettio dei passi ora è alle spalle e piano piano si allontana, all’uomo sembra di intendere in quel ritmo un rallentamento, un indugio, con uno sforzo vincendo le sue paure, cercando disperatamente di dare una speranza al sogno si volta augurandosi che anche la donna abbia compiuto lo stesso gesto, ma scorge solo una figurina di spalle che piano si allontana, ed il sogno lentamente si spegne ed  il pensiero si perde lungo sentieri divenuti nuovamente grigi.

Quarta striscia
Vignetta Numero due

Quasi con disappunto, ascolta i passi dell’uomo allontanarsi alle sue spalle, in un ultimo tentativo di ricreare quella speranza senza rallentare il passo si volge, chissà forse anche lui si girerà per osservarla, anche lui forse…. no, scorge solo una figura di spalle che a passo spedito ora si allontana, raddrizza la schiena, scuote il capo, già perché poi avrebbe dovuto accadere perché proprio in quell’attimo, perché proprio lì, ed anche l’ultima illusione si allontana portandosi appresso il colore.

Quarta striscia
Vignetta numero tre

La strada è tornata deserta, si è persa persino l’eco del rumore dei passi, le sera che scende ora ne nasconde  il grigiore, solo un gatto annoiato lentamente ritorna da dove……………

                                                                  

                                                                                

Set 19, 2007 - racconti brevi    22 Comments

Purga

seconda parte

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L’accompagno all’albergo a ritirare la valigia la sistemiamo nel bagagliaio ( a fatica) poi via verso Como e in  una ventina di minuti, dopo avere superato senza intoppi la dogana, salvo qualche commento poco felice dei doganieri di turno, raggiungiamo la città. Fa caldo e la gente è tutta  fuori, pertanto impieghiamo quasi lo stesso tempo per trovare un parcheggio libero, poi ci incamminiamo lungo le strade affollate. Ormai sono le undici, ed il mio stomaco comincia a brontolare, si perché come mi succede di questi tempi dopo avere lasciato l’ufficio scendo in città senza cenare, per poi mangiare quando mi capita in qualche ristorante, pizzeria o paninoteca. Così le chiedo se per caso non le vada di mangiare una pizza, l’espressione che le si dipinge sul viso è la più eloquente delle risposte, la prendo sotto braccio e la trascino verso il Don Lisander, ristorante pizzeria che si trovava nelle immediate vicinanze del luogo e ci accomodiamo ad un tavolo. Pizza margherita per me, come sempre, trovo sia la migliore quando la pizza è buona, pizza quattro stagioni per lei, poi la domanda e da bere? Mi guarda e mi sorride con aria sbarazzina e furba, siamo in Italia, dice, se non ti spiace vorrei bere del vino, nessun problema e così passo le ordinazioni, pinot grigio, a quel tempo era il mio preferito e lo è ancora anche se a pari merito con molti altri. Aspettando le pizze viene servito il vino e l’acqua minerale, le verso un bicchiere di vino, lei lo porta alle labbra  lo assaggia, “Gut, shone” esclama, poi mi guarda mi strizza l’occhio e traduce, “C’est bon, merci, bravò” La sala è affollatissima, l’attesa è lunga, così parlando e raccontandoci a vicenda ci rendiamo conto che la bottiglia di vino ha esalato l’ultimo respiro e la pizza non è ancora arrivata, non mi resta che ordinarne un’altra. Sono quasi tre ore che stiamo parlando, abbiamo preso un gelato assieme, siamo seduti al tavolo in attesa di una pizza abbiamo finito la prima bottiglia di vino e ancora non so come si chiama,  è strano vero? Ma a me alcune volte succede, come se i nomi in certe occasione non abbiano nessuna importanza, ma decido di presentarmi le dico il mio nome e le chiedo il suo,  sorride e …………..Purga….. é quanto suona alle mie orecchie. Giuro, solo il vino che stavo sorseggiando e che improvvisamente parte per la tangente, causandomi un furioso scoppio di tosse, impedisce che lo scoppio divenga , forse  anche a causa della leggera euforia uno scoppio incontrollato di risa. Mi guarda stupita per un attimo io le spiego che distrattamente ho ingerito il liquido di traverso e lei mi sorride rassicurata, nel frattempo le pizze sono arrivate ed iniziamo a mangiare. Lasciamo il ristorante che è quasi l’una, e ci incamminiamo sul lungo lago, la maggior parte della gente ormai se n’è andata, solo pochi gruppetti si attardano ancora lungo la riva o ai tavolini dei bar,  camminiamo lentamente a braccetto ed io sono contento che ormai non ci sia quasi più nessuno, visto che lei con i tacchi mi sopravanza di qualche centimetro. Camminiamo costeggiando il lago mentre l’ascolto raccontarmi quella che è la sua vita a Basilea, studentessa, iscritta all’università, chimica mi dice, già, come potrebbe essere diversamente visto il luogo dove abita?  Camminando siamo giunti all’altezza dei giardini pubblici a lato della diga foranea che si inoltra per un centinaio di metri nel lago sino a giungere quasi di rimpetto alla piazza Cavour, piazza centrale di Como affacciata sul lago. C’incamminiamo lungo la diga mentre lei mi confida che ama la musica romantica e che la sua canzone preferita è La vie en rose, e dolcemente inizia a sussurrarne le note  fra le labbra. Cosa non ti fa fare il vino, ti libera dai pensieri e dalle angosce e soprattutto dalle paure, immediato è l’inchino e il baciamano, la prendo fra le braccia è danziamo, seguendo il lento mormorio della melodia che le esce dalle labbra. Se qualche nottambulo sulla riva avesse in quel momento guardato verso il lago avrebbe scorto due silouette ondeggianti che dolcemente danzavano al suono di un immaginaria  melodia sotto i raggi della luna. La risata che le sgorga delle labbra è contagiosa e così ci fermiamo ansanti, mi guarda negli occhi, mi stampa un bacio sulla fronte, poi mi dice, che è stanca vorrebbe riposare almeno un poco prima di partire, sono le due di notte e mancano ancora sette ore alla partenza del treno,  il sorriso si attenua, lo sguardo si fa buio e si abbassa verso terra, “Chez toi……..” le esce in un sussurro. Il suono della sveglia ci scuote dal sonno, ci stropicciamo gli occhi e ci guardiamo in faccia ancora assonnati, non abbiamo riposato molto, il mio saluto è un enorme sbadiglio, il suo è un sorriso, “ Merci, mi dice, grazie a te io avrò molte cose da raccontare al mio ritorno e un bellissimo ricordo dell’Italia”.
Non c’è tempo per la colazione,  via di corsa per non perdere quel treno che dalla stazione di Como parte alle 8.30, per fortuna a quell’ora i parcheggi sono ancora disponibili, scarico la valigia l’accompagno al binario, giusto in tempo il treno è già lì in attesa, un saluto veloce un sorriso e ancora una volta un veloce bacio sulla fronte, forse solo perché giusto all’altezza delle sue labbra, poi la vedo salire,  un ultimo saluto, un cenno di mano, ciao arrivederci………………Già arrivederci, la sensazione che quel momento non avrebbe mai potuto finire, poi la fretta per non farle perdere il treno, beh mi avevano fatto scordare la cosa più ovvia, mi ero dimenticato di chiederle l’indirizzo.  A settembre, a Monaco in compagnia di Gunther, agente per la Germania, mentre visitavamo la fiera mi venne da chiedere cosa significasse in tedesco quel nome , Purga, lui mi guardò sorpreso e mi rispose di non averlo mai sentito, e che probabilmente come accadeva in alcuni casi il nome aveva analogie locali e poteva essere diffuso solo in determinate regioni e che con ogni probabilità  grammaticalmente doveva essere scritto con la ph, Phurga e che la corretta pronuncia avrebbe dovuto essere Furca. Addio Purga o  Furca, come sospettava si chiamasse Gunther, sei rimasta solo un bellissimo ricordo e come tale non finirai mai di esistere. Rammento anche lo sguardo stupito di alcuni infermieri, che nel corso della mia vita in occasione di un paio di interventi, mentre si avvicinavano al letto facevano sfoggio sul volto della più classica delle espressioni sadiche  mentre annunciavano, “ Si prepari, è il momento della purga”, sorpresi di vedere apparire sul mio volto un espressione sognante ed un ancora più sognante sorriso.

                                                                                                              refusi

 

Set 18, 2007 - racconti brevi    8 Comments

Purga

parte prima

3cd92807c5f219908d298f51869ca643.jpgDa tempo dopo la separazione sto cercando di riprendere una vita normale, riallacciare le amicizie, riprendere a frequentare i luoghi che mi avevano visto presente prima del matrimonio, ma non è semplice, gli anni sono trascorsi e non solo per me ma anche per gli altri, anche i vecchi amici si sono sposati e lo sono ancora, con mogli e figli a carico non frequentano più quei posti, ma rimangono tranquilli a casa oppure escono per delle passeggiate, con mogli e figli al seguito. Certo so che esiste ancora un piccolo gruppo di scapoli impenitenti, ma è tanto tempo che non ho più occasione di incontrarli e sono sempre stati difficili da rintracciare. Improvvisa l’illuminazione, è luglio le sere sono calde, guardo l’orologio, sono le 20.30 e penso, Lugano, sì, dove se non Lugano, la Svizzera non ha ancora adottato l’ora legale, pertanto ho tutto il tempo per giungere sul luogo nell’ora migliore, per gettare uno sguardo agli ambienti abitualmente frequentati ai miei tempi, e spero ancora adesso. Dopo circa mezz’ora sono sul posto e  alla ricerca di un parcheggio, costeggiata la piazza del Federale, mi ritrovo sul lungo lago, in colonna, strano a quest’ora non c’è mai molto traffico, alcune macchine targate Varese, la maggior parte targate Como e vanno a passo d’uomo. Una Porche Carrera blu cabrio, un Alfa Romeo Montreal arancio, una Jaguar verde inglese, un pagodino decappottabile verde metallizzato, sorrido, conosco queste macchine e so cosa stanno a significare, caccia! Non sono in condizioni di pormi in concorrenza, il mio maggiolone cabrio blu yogurt con capote nera è simpatico, ma non è all’altezza della situazione, e poi da tempo ho perso l’abitudine a questo genere di cose, ne sono divenuto estraneo. Comunque sono lì in colonna e non posso fare a meno di osservare ed ad un certo punto la scorgo, si deve essere lei il fulcro di tutta quell’attenzione. Biondi corti riccioli le coprono il capo, una camicetta rosa annodata in vita sopra ad un paio di short bianchi che fasciano un posteriore decisamente  notevole posto sopra due gambe lunghe fasciate in calze nere autoreggenti stretti sulle cosce, ed il tutto ondeggia nella camminata sopra due sandaletti bianchi a tacco alto. Sì penso, la fila è giustificata mentre lei, forse infastidita dai fischi di apprezzamento provenienti da alcune auto cambia improvvisamente direzione, si volge torna indietro e affretta il passo, anche il viso è all’altezza del resto, tedesca penso, quasi certamente, viene nella mia direzione,  inconsapevolmente le sorrido e la saluto con gesto della mano. Si blocca, si guarda attorno e poi non so per quale ragione si dirige verso la mia macchina, improvvisamente mi sono fermato, lei apre la portiera e sale, si siede e mi guarda, sotto un trucco un po’ troppo pesante il volto è quello di una ragazzina spaventata, ed è una ragazzina scoprirò poi, solo 19 anni,  trema quasi, “ Warum? “ è la sua domanda, perché, già perché. Come immaginavo, e io non conosco il tedesco a parte il già citato warum, gut, kartoffen, genau, e poco altro ancora, provo a chiedere se parla inglese, non che migliori di molto la cosa ma qualche parola in più riesco a spiccicarla, scuote la testa in modo negativo, poi mi spiega in modo stentato, che è svizzera di Basel, Basilea,  si ma fa anche Baal, forse sono stato fortunato, la città  non è solo sul confine con la Germania ma anche con la Francia e quasi tutti i basilesi anche se in modo meno corretto del tedesco, loro lingua madre, parlano anche il francese, glielo chiedo, la risposta e un largo sorriso che gli rasserena il viso ed un  “Oui” pronunciato con sollievo. Nel frattempo ho rimesso in moto, e raggiunto il rondò posto poco più avanti compio un inversione di marcia incrociando così in senso opposto quella fila di auto che avevano costituito in precedenza il corteo, facce curiose si sporgono ad osservare, alcuni mi riconoscono sorridono e salutano col pollice alzato, sono i comaschi, che con un colpo di clacson si allontanano accelerando,  il gioco è finito e solo qualche varesotto, insiste a tallonarmi con l’auto, poi resosi conto che la partita è definitivamente persa, si allontana. Nel frattempo le chiedo se vuole prendere qualche cosa, un gelato, un caffè, mi risponde sorridendo sì un gelato va bene, sembra tranquillizzata ora, supero il Kursal e raggiungo il parcheggio che si trova dietro ai giardini pubblici, sistemo l’auto scendiamo e ci addentriamo nel parco verso il chiosco che proprio sulla riva del lago produce e vende ottimi gelati. La guardo e le chiedo per quale ragione abbia scelto di salire sulla mia macchina, mi sorride e la sua risposta è semplice “ Hai un sorriso gentile”. Seduti al tavolino iniziamo a parlare un po’ di tutto, il suo francese è scolastico ed appunto per questo di facile comprensione, il mio si è affinato in anni di rapporti di lavoro e  molte volte sono in difficoltà ad affrontare argomenti di comune conversazione. Mi racconta di essere a giunta Lugano al servizio di una famiglia Bernese, che ha scelto di trascorrere prima a Saint Moritz e poi qui le proprie vacanze, in qualità di baby sitter. Mi racconta che in quei 15 giorni non ha mai avuto un giorno di libera uscita e che, ora che la famiglia presso la quale era impiegata è rientrata, lei si è trattenuta ancora un giorno, per visitare Lugano, ma che il suo desiderio sarebbe stato quello di visitare l’Italia, visto che era questo che si era ripromessa di fare quando era partita, era quanto aveva entusiasticamente raccontato alle proprie amiche prima di partire ed era quanto si accingeva a fare nel pomeriggio, dopo avere lasciato l’albergo, ma che purtroppo non aveva potuto fare incapace di organizzare in così poco tempo anche una breve gita e che le dispiace molto, perché lei in Italia avrebbe voluto andarci, anche solo per pochi attimi, anche solo per pochi metri per poter raccontare al rientro di esserci stata. Ora, dice non le sarà più possibile, dovrà rientrare in albergo a prendere la valigia lasciata in deposito visto che non ha più la camera, e recarsi alla stazione dove aspetterà tutta la notte nella sala d’attesa quel treno che alle 9 del mattino partirà per riportarla a casa. La guardo, mentre col cucchiaino pulisce il fondo della coppa del gelato, ha la faccia di una bambina imbronciata, delusa per non avere potuto realizzare quel desiderio che è stata la sola ragione per la quale aveva accettato il lavoro. Guardo l’orologio sono le 22, in Italia naturalmente visto che qui sono ancora le nove di sera, un pensiero mi attraversa la mente, perché no mi dico, è venerdì sera e l’indomani non ho assolutamente nulla da fare, così glielo chiedo, gli chiedo se quelle notte che lei dovrebbe  trascorrere in sala d’attesa preferirebbe trascorrerla girando per le strade di Como, così al rientro avrebbe potuto raccontare alle amiche di essere stata in Italia, le spiego che con l’auto e con  l’autostrada per realizzare quello che è il suo desiderio occorrono solo pochi minuti, una ventina non di più. Mi guarda sorpresa, forse non si aspettava questa offerta, è titubante vedo,  sta pensando se accordarmi o meno la sua fiducia, poi di scatto si alza dalla sedia facendo traballare il tavolino ed un sorriso le si allarga sul viso, sì, dice, andiamo, andiamo….
                                                                                              refusi
                                                   
                                                                                                (segue)
                                                       

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