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Set 9, 2007 - poesie, racconti brevi    16 Comments

Il sogno e i canguri

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Tempo fa, tanto tempo fa,  avevo scritto una poesia se così si può chiamare, non mi sembrava male, ma poi rileggendola mi ero reso conto che poteva avere qualche significato solo conoscendone l’antefatto, così avevo pensato di narrare anche quello. Cosa è successo dopo……… beh, questa è un’altra storia e non è dato di saperlo.

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Il sogno e i canguri

Nella stanza
prima tranquilla,
ora qualcosa è cambiato.
Il lampadario annoiato,
stanco
di stare appeso al soffitto
ondeggiando
occhieggia in altre stanze
alla ricerca
di un riflesso ramato.
L’armadio geme e scricchiola
nel tentativo
di fuggire dalla stanza
ad inseguire un ricordo.
Lo specchio
si corruga e s’affanna
cercando
di creare un immagine.
Le silenziose pareti
trattengono
gelose nei propri angoli,
l’eco di una risata.
Canguri smarriti
caduti da un sogno
saltellano impauriti,
alla ricerca di nuovi alberi
e del padrone del sogno.
La giacca di un pigiama
tenacemente conserva
vago un profumo
e un po’ di calore
nel ricordo di un corpo.
Un bianco letto,
ora troppo grande e vuoto
ed un cuscino
privato del fuoco di un capo
invocano nuovamente
la sua presenza.

                                     

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Notai per la prima volta la loro presenza rientrando in casa quella mattina, con gli occhi che si rifiutavano di restare aperti a causa del sonno. Lo vidi saltellare per la camera senza provocare alcun suono, irreale fantastico, un canguro rosso rame con profondi, malinconici occhi scuri.
Incubo, sogno od allucinazione? Sbattei più volte le palpebre cercando di scacciare quella imbarazzante visione, inutile, il canguro era sempre lì. Mi buttai sul letto più sorpreso che allarmato, gli occhi arrossati, il cervello appesantito dal fumo e da qualche bicchiere di vino di troppo e nonostante non riuscissi a scacciare l’immagine di quel folletto saltellante, né tanto meno a capire la ragione della sua presenza caddi in un sonno profondo, privo di sogni.
Riaprii gli occhi alle prime ore del pomeriggio, scrutai fuori dai vetri cercando di individuare, in un cielo completamente grigio, l’impossibile raggio di sole che colorava di rosso un angolo della stanza, poi lo vidi e ricordai. Era ancora lì, col suo fulvo mantello osservandomi con quei due grandi e profondi occhi. Due? No, quattro, sei occhi. Dal marsupio sul ventre erano spuntati due piccoli musi identici nel colore, rossi! I canguri erano diventati tre. Sbattei più volte le palpebre, stropicciai gli occhi, scossi in modo forsennato la testa cercando di snebbiare il cervello, cancellare la loro presenza, annullare quell’assurda visione. Niente! I canguri erano sempre lì e mi guardavano, sembravano stupiti dalla mia reazione, sembrava io dovessi sapere chi fossero ed il motivo della loro presenza. Girai lo sguardo per la stanza, era la camera di sempre, lo stesso letto, il medesimo armadio, lo specchio, i comodini, sul letto guanciale sprimacciato accanto al mio ed il di dubbio, l’assurda sensazione che mancasse qualcosa, qualcuno! Le prime dolorose contrazioni allo stomaco provocate dall’ansia, il senso di vuoto, l’assenza, la certezza! Il ricordo di un capo rosso rame, di uno sguardo profondo come il buio, il ricordo di un sogno accennato di piante e di canguri.
Di canguri! Tornai con la memoria alla sera precedente db4217e7c02082111151c7e2f154c15c.jpgquando, non sapendo cosa fare ci eravamo riuniti tutti a casa mia, amici ed amiche, trascorrendo la serata in allegria, ridendo e scherzando, giocando a certe ed accennando ad ipotetici quanto improbabili flirt. C’era anche lei, presente ed assente nello stesso tempo, estranea, come altre volte, a quanto le accadeva attorno. Istintivamente antipatica. Con quei suoi capelli troppo rossi, con i suoi occhi così strani, con quel suo modo di vestire trasandato e grande almeno due misure di troppo. Si alzò e mi chiese di telefonare, accennai di sì con il capo e continuai a giocare a carte con gli altri dimenticandomi di lei, come sempre. Passata la mezzanotte la compagnia cominciò a sfollare in un affollarsi di ciao, grazie di tutto, a domani, ci vediamo al bar, non so se ci sarò, ci sentiamo per telefono, quando in mezzo ad altre voci la sentii sussurrare:” Scusa, ti spiace se rimango qui a dormire? E’ tardi e non posso tornare a casa”. Ricordo la sensazione di fastidio che provai alla sua richiesta, lei dovette notare la mia espressione perché aggiunse subito quasi in tono di supplica:” Ti prego non ti darò fastidio, ecco – disse – dormirò qui sul divano”. Non ricordo se fu il tono della sua voce o lo sguardo triste dei suoi occhi a farmi cambiare idea, ma all’improvviso quell’antipatia istintiva ed immotivata che avevo provato sino ad allora nei suoi confronti si allentò e scomparve per lasciare posto alla curiosità. Le prestai un pigiama, le feci posto nel letto, giuro che per tutta la notte non mi sfiorò mai il pensiero di poter fare all’amore con lei, anche se, tolta dall’involucro informe dei suoi abiti, appariva all’improvviso fragile, graziosa e desiderabile. Non dormimmo, cominciammo a parlare. Non ricordo esattamente da dove iniziò la conversazione, però parlammo di tutto. Lei accennò al suo mondo, ai suoi amici, parlò dei suoi problemi, delle sue paure, dei fantasmi che popolavano i suoi sogni ed io l’ascoltavo, accendendo l’ennesima sigaretta e riempiendo ancora una volta i bicchieri. Poi, forse a causa della stanchezza e del vino, i nostri discorsi divennero improvvisamente assurdi, irreali, fiabeschi. Parlammo di armadi viaggiatori che, stanchi di stare ancorati ad una parete, fuggivano irrequieti dalle camere. Di lampadari antipatici che ondeggiavano pericolosamente sui soffitti minacciando di cadere. Di box che al mattino non volevano più aprirsi e fare uscire le auto per la paura di dover rimanere nuovamente soli. Le sue risate, echeggiando squillanti ed argentine, costrinsero più volte i vicini a percuotere con i pugni le pareti invocando il silenzio. Questo quando lei, alle quattro del mattino con gli occhi semichiusi dal sonno, si addormentò augurandomi, dopo un ultimo sbadiglio, la buonanotte ed io rimasi sveglio guardandola dormire, senza pensare a nulla, sorvegliando il suo sonno affinché in suoi sogni non si trasformassero in incubi e nel sonno, mi si raggomitolò contro, cercando inconsciamente la protezione di una madre. Si risvegliò alle otto, si stirò e sorrise:”Ciao – disse guardandomi – sai ho fatto un sogno strano, bellissimo, ero in un bosco  verde con tanti canguri che saltavano fra gli alberi…” e continuò a narrarmi il suo sogno felice come una bambina, sino a quando più tardi, una sua amica la venne a prendere. Si rivestì e io l’accompagnai sino alle scale, :” Ciao ci vediamo, grazie” disse, mi sorrise ancora poi si avviò di corsa per le scale.
Fu proprio allora che rientrando in casa vidi il canguro, i canguri. In poche ore ero passato dall’antipatia alla simpatia, dalla simpatia a qualche cosa d’altro che non volevo ammettere, no, pensai, non è possibile. Solo da poco ero uscito piuttosto ammaccato da un matrimonio a dir poco burrascoso e sino a qual momento non avevo avuto alcuna intenzione di iniziare  una nuova relazione. No! Mi dissi. Non voglio, non devo.
“No. Non puoi.” Quella voce echeggiò nella mia testa ripetendosi come un eco.
“Chi…?” esclamai sgomento.
“Noi” Mi volsi.
“Si, noi, i canguri”
“Voi non esistete, – urlai  – non esistete e non siete mai esistiti. Non potete parlare, siete un incubo, una allucinazione, un’assurda ipotesi. Via! Andate via!”.
“Non possiamo, – risposero – E’ vero, prima non esistevamo, prima di cadere da un sogno, ma ora siamo qui come te e aspettiamo”.
“Aspettate? Aspettate cosa? Che cosa aspetto?”
“Lei – risposero – che lei torni a prenderci”.
“Tornerà?” chiesi sconfitto.
“Forse” risposero.
a7232ce57fce5f94cd3ab3e6989e2b73.jpgChiusi gli occhi per l’ennesima volta cercando di riordinare i pensieri, cercando di dare una spiegazione a quella sensazione di vuoto, alla mancanza di qualcosa. Li riaprii e li richiusi nuovamente nella speranza che tutto potesse tornare alla normalità, sperando, riaprendo gli occhi, di poter constatare la scomparsa di quegli strani e saltellanti folletti rossi. Niente, erano ancora lì, così mi costrinsi ad accettare quell’impossibile presenza quasi fosse un fatto reale. Mi vestii di corsa, uscii e girai per la città quasi fossi un invasato andando da un bar all’altro, da una piazza all’altra nella speranza di incontrarla nuovamente. Incrociando gli amici presenti la sera prima a casa mia mi soffermavo a fare quattro chiacchiere, ma dentro bruciava la voglia di chiedere se l’avessero vista, se ne conoscessero l’indirizzo od il numero di telefono ma senza mai trovare il coraggio per farlo. Alla sera tornato a casa, ritrovai ad attendermi i canguri, il più grande sulla porta della camera ed i piccoli che, silenziosi, saltellavano sul letto. Mi guardarono muti ma i loro occhi esprimevano una silenziosa domanda “L’hai vista? Tornerà a riprenderci?”.
Non risposi, la mia espressione era più eloquente di qualsiasi parola. Scoraggiato mi buttai sul letto cercando di prendere sonno e col sonno dimenticare, loro mi circondarono pazienti ed attesero, poi, quando finalmente mi addormentai, silenziosamente entrarono nei miei sogni. Continuai così per diversi giorni a girovagare per la città nella speranza di incontrarla, senza nessun risultato, la sera rientrando a casa incontravo nuovamente i canguri che ripetevano ogni volta con gli sguardi la medesima domanda, aspettando poi, pazienti come sempre, che mi addormentassi per entrare nei miei sogni ed uscirne nuovamente al mio risveglio all’alba, nell’implorante attesa di poter tornare ancora una volta a quell’unico vero sogno.

 

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Ago 25, 2007 - racconti brevi    5 Comments

Anche i pensionati vanno in vacanza

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Val Badia – Corvara – il Sassonger

Sì, anche i pensionati vanno in vacanza  e di solito lo fanno fuori stagione, quando gli altri non sono ancora partiti o sono già per la gran parte rientrati e lo fanno per due ragioni,  l’insofferenza all’eccessiva presenza di folla  dovuta all’età, e la ben più grave insofferenza dovuta ai prezzi dell’alta stagione.
Pertanto anch’io come molti di questi pensionati partirò per le vacanze in questo periodo, domani per l’esattezza. Andrò in quei luoghi che ormai da parecchi anni sono il luogo abituale delle mie vacanze sia estive che invernali, le montagne della luna, le Dolomiti. Partirò seguendo il percorso abituale,  rifuggendo il traffico caotico dell’autostrada, costeggerò il lago sino a Colico, poi su per la Valtellina, Sondrio, Tirano, deviazione per l’Aprica, poi giù sino ad Edolo per risalire ancora verso Ponte di Legno ed il passo del Tonale, sosta per il caffè ed uno sguardo su, al ghiacciaio del Presena dove staranno sicuramente sciando. E giù ancora di nuovo verso la Val di Sole sino a sfiorare  Madonna di Campiglio ed addentrarsi nella Val di Non  dove sarà sicuramente in corso la prima raccolta delle mele e su ancora sino al passo della Mendola, dove in uno dei ristorantini locali ci si fermerà per un breve spuntino e da cui si ripartirà per discendere verso Bolzano non senza avere dato uno sguardo prima a quella che in passato era stata per anni la residenza estiva della Principessa Sissi Imperatrice d’Austria e regina d’Ungheria. Da Bolzano su lungo la Val d’Adige, per addentrarsi poi lungo la Pusteria ed infine , prima di Brunico deviare per la Val Badia e su sino a La Villa dove da anni affitto un appartamentino, sia l’estate che l’inverno e vi assicuro che già questo primo giorno è un ottimo preludio alla vacanza. Amo questi luoghi e ormai li considero come una mia seconda casa, vi sono giunto una ventina di anni fa quasi per caso e da allora non li ho più abbandonati, ho percorso sci ai piedi quasi tutte le piste, camminato per innumerevoli sentieri, raccolto funghi,  scattato migliaia di foto e diapositive ed ancora non mi sono stancato di ripercorrere questi luoghi e di ammirarne la bellezza. Sì domattina parto e per una decina di giorni vi lascio, sono sicuro che vi mancherò, e che visto che mi volete molto bene vi state augurando che io possa stabilirmi in quei luoghi che amo senza più tornare.
Ma per non farvi pesare troppo, la mia assenza, ho approntato un paio di piccole cosette che verranno postate nell’arco di questi giorni, mi sembra di sentire i vostri sospiri di sollievo alla notizia, un saluto a tutti i bloggher a presto                                                                           refusi

Ago 22, 2007 - racconti brevi    6 Comments

Carenze affettive

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Carenze affettive

Stava seduto adagiato stancamente nella poltrona, mentre con aria distratta osservava la partita sullo schermo televisivo, il suo pensiero seguiva altri impulsi, aveva voglia di staccarsi dalla poltrona, vestirsi ed uscire, ma si costrigeva a rimanere seduto, ora capiva cosa significava quella frase che aveva sentito pronunciare altre volte in altre occasioni, crisi di astinenza, e mentre il suo cervello formulava questa osservazione lui si era ritrovato a pensare a quando tutta quella storia era  iniziata. Bruno, di nome e di fatto, capelli scuri, occhi vivaci dove si poteva scorgere una traccia di quel sorriso disincantato ed ironico, che aveva sempre stampato sul viso. Trentaquattro anni, un metro e ottanta per settantadue chili di peso, fisico snello, scattante, asciutto, quasi atletico, anche se lui non praticava  attivamente nessuno sport in particolare. Ormai ricorreva un anno dal giorno della sua separazione, sì da un anno era ritornato ad essere single, i primi mesi erano trascorsi tranquillamente, sonnacchiosi si potrebbe dire, fra il lavoro e l’adattamento al nuovo genere di vita, sino a quel giorno, quel maledetto giorno. L’ansia era apparsa all’improvviso, la tranquillità svanita nel nulla, e all’improvviso si era ritrovato fuori per strada alla ricerca di qualche cosa che potesse riempire quel vuoto, aveva impiegato tempo, fatica e rimediato anche alcune figure di merda, che anche se il termine all’apparenza può sembrare volgare, è quello che riassume brevemente ed in sintesi quanto in realtà successo, poi l’aveva trovata. Si chiamava Franca, biondina, magra e lunga, capelli lunghi sciolti sulla spalle, con quell’aria svampita tipica di chi è alla ricerca di un contegno e di  una personalità non ancora acquisita, le difficoltà erano state solo iniziali, convinta ad accettare un caffè, seduti al tavolino della terrazza di un bar sulle rive del lago la conversazione era proseguita in modo fluido e divertente, al caffè si era aggiunta una birra e poi un’altra ancora, ed a tarda sera, non si erano presentate difficoltà all’offerta di effettuare un giro turistico nell’appartamento di uno scapolo. Sì Franca la ricordava bene, era stata la prima della serie, per le altre, solo un vago incrociarsi di nomi, di, volti di fatti, di sorrisi e di ansiti, il tutto mescolato all’ansia perenne di riempire quel vuoto. Quell’ansia che lo spingeva per le strade la sera che lo constringeva ad un ritmo da stakanovista ad una media di tre per settimana, ed era diventato veramente bravo, in breve tempo aveva superato la fase delle figure di merda, bastava un po’ di attenzione, iniziare ad osservare il soggetto da lontano. Passo veloce, deciso faccia dritta avanti, la guardi, ti osserva per un attimo per nulla impressionata e tira diritto, da evitare, il rischio è della solita figura di merda. Cammina in modo elastico, dondolandosi sulla punte, risponde in modo franco al tuo sguardo, sorride al tuo sorriso appare simpatica e cordiale, da evitare, trascorreresti tutta le serata, e quelle successive a discorrere dei suoi problemi a fare osservazioni sui suoi dubbi e sulle sue aspettative. Eccola alfine è lei,  pare camminare in modo affrettato come una che abbia molte cose da fare ed un posto in cui recarsi ti ha già adocchiato da lontano e ti sta osservando con attenzione, ma nell’attimo in cui si accorge di essere osservata a sua volta sembra incespicare, il passo si affretta ma si riduce a piccoli passetti brevi, quasi volesse dare l’impressione di affrettarsi e nel contempo di non voler mai lasciare quei pochi centimetri su cui sta camminando. Con lo sguardo cerca disperatamente una vetrina al lato della via a cui destinare la propria attenzione, la mano sale in un gesto rapido a scostare della fronte un’inesistente ciocca di capelli, lo spazio si accorcia, si avvicina, giunta alla tua altezza con il tuo sguardo che le brucia il viso, piega la testa leggermente di lato e verso il basso, le palpebre chiuse a evitare i tuoi occhi, per poi lanciarti di sfuggita proprio nell’attimo in cui le vostre teste sono alla stessa altezza un ultimo breve supplicante sguardo. Inizialmente sembrerà non darti retta, volgerà lo sguardo altrove apparentemente infastidita, ma poi ad una semplice frase, “Scusa se ti ho disturbato, mi sembravi sola e volevo solo farti compagnia, scambiare quattro chiacchiere ed eventualmente offrirti un caffè”, scioglierà quell’apparente gelo, era la frase tanto attesa, “Se si tratta solo di un caffè, lo accetto volentieri grazie”. Quante ne ha conosciute e dimenticate, quante hanno contribuito a cancellare nel corso delle serate e delle notti la sua ansia, salvo poi ritrovarsi al mattino con un estranea nel letto e con l’amaro desiderio che la cosa non fosse mai accaduta e che non dovesse più ripetersi e il tutto da quella maledetta volta. Gli mancava, non riusciva a farne a meno. Il solo pensiero scatenava ancora il desiderio, il sangue gli ribolliva nelle vene e la bocca improvvisamente arida e priva di saliva,  come dite?  La separazione? La moglie che lo aveva lasciato? Ma, no ma che avete capito, la separazione era stata indolore le cose non funzionavano più da tempo ed era stata un sollievo per entrambi. No da quella maledetta volta che il medico osservando la sua cartella clinica aveva commentato, “ C’è un principio di diabete, da oggi basta cioccolato se vuoi continuare a vivere”.

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Lug 22, 2007 - racconti brevi    4 Comments

Kivulimi – Vento dell’est

2c3d732b172840190758076be40c9244.jpg                                            quinta ed ultima parte 

La guida parla abbastanza bene l’italiano. Sta spiegando qualcosa a proposito di pepe, cannella e chiodi di garofano, ma io non presto molta attenzione. Il gruppo si sposta ed io ne approfitto per porgli la domanda che mi sta a cuore: “Hai mai sentito parlare di kivulimi?”

“Vuol dire casa delle ombre” mi risponde.

“Si lo so, ma hai mai sentito parlare di un posto che si chiama così?”

Lui scuote la testa. “No, mai.”

“Sei sicuro?” insisto.

“Sicuro.” Mi sorride benevolo, ha capito che ci sono rimasta male. Deve essere per forza così, è una guida, se esistesse non potrebbe non saperlo. Adesso la mia vacanza è davvero conclusa.

“Và, cogli una stella cadente…Dimmi dove sono gli anni trascorsi… Insegnami a udire il canto delle sirene…” … Una colomba che tubava sul davanzale. Il profumo dei fiori nel sole. Falene nel giardino della Casa delle Ombre sotto il chiaro di luna…*

Il cielo è grigio ed in lontananza si intravedono grosse nubi cariche di pioggia, in tema con il mio stato d’animo. La stagione delle piogge è prossima e tra non molto anche il villaggio chiuderà i battenti per riaprire con il nuovo anno. La spiaggia è deserta quasi come il giorno in cui l’ho vista per la prima volta. Un po’ per via del tempo ed un po’ perché gli altri sono tutti assorbiti dai preparativi della partenza e dagli ultimi acquisti. Le mie valigie sono già pronte e non ho regali da comperare, gli ultimi soldi li ho spesi per l’escursione del mattino. Sono venuta a salutare il mare. Ho fatto l’ultimo bagno e adesso sono seduta sul telo di spugna con le ginocchia strette al petto. Inutile dire che mi sento molto malinconica e delusa. Kivulimi non esiste. Ho letto e riletto quel libro fin quasi ad impararlo a memoria, al punto che irrazionalmente mi ero convinta che fosse parte di me… o io di lui… ma comunque reale… Il mio sogno di bambina si è infranto miseramente. Non potrò mai più pensare a Zanzibar nello stesso modo. Non sarei mai dovuta venire qui. Avevo bisogno di quel sogno, di credere che fosse tutto vero. Che Miss Hero Hollis ed il capitano Rory Frost fossero realmente esistiti, insieme con la Casa delle Ombre. Rappresentavano da sempre un rifugio per me. Un viaggio avventuroso, lontano dai pensieri tristi e da me stessa. Perché sono venuta? Sapevo benissimo che c’era la possibilità di ricavarne una delusione. Ma io dovevo venire. Perché? Perché? E poi, come se un raggio di sole avesse squarciato le nubi che offuscavano la mia mente, ho capito. Proprio per questo dovevo venire. Perché non è più il tempo di sognare, ma di vivere…

Un lieve movimento alle mie spalle mi distoglie da quei pensieri. “Ti disturbo?” Il ragazzo indossa la maglietta dello staff ma io non l’ho mai visto.

“No, figurati.” gli rispondo.

Si siede accanto a me sulla sabbia. “E’ raro vederti in giro…” mi dice.

“Si, in effetti ho girato parecchio… Non ti ho mai visto. Di cosa ti occupi?”.

“Della colonna sonora delle tue vacanze…” indica il gabbiotto situato nella parte alta della spiaggia. Il posto ideale per guardare senza essere notati… “Anche di sera in discoteca,” e confermando i miei sospetti aggiunge “non sei mai venuta.” 

Sono imbarazzata e resto in silenzio, non saprei proprio cosa dire. Non certo che ho trascorso gran parte della settimana in cerca di fantasmi. Sono consapevole del fatto che per una ragazza della mia età sarebbe stato più normale partecipare alle attività del villaggio e far tardi in discoteca. Ma io non sono così e non posso farci proprio niente.

“Sei strana…” Sorride. Ha un bel sorriso, pulito e sincero. I suoi occhi sono molto dolci. “Parti domani?”

“Si…”

“Come mai viaggi da sola?”

“Quando ho organizzato questo viaggio ero sola… io ed il mio ragazzo ci eravamo lasciati… nel frattempo siamo tornati insieme, ma era troppo tardi… così…” è la verità anche se non spiega come mai, mesi fa, io abbia deciso di intraprendere questo viaggio da sola, ma a lui sembra bastare come spiegazione.

“Ho capito…” dice con gli occhi bassi giocherellando distrattamente con la sabbia.

Proprio in quel momento sento chiamare il mio nome dall’altoparlante della direzione. Rapidamente raccolgo tutta la mia roba, mi scuso e mi allontano. Dall’altra parte del telefono mio padre mi chiede come sto, ma io sono distratta. Lo ragguaglio sull’orario di arrivo e lo liquido velocemente. Quando torno alla spiaggia il ragazzo non c’è già più e così mi avvio al mio alloggio per prepararmi per la cena.

Nell’anfiteatro sta cominciando il viavai di gente che si accinge a prendere posto sulle gradinate e mi accorgo del “ragazzo della musica” solo quando me lo trovo davanti.

“Ciao” mi saluta e il suo sorriso mi sembra ancora più bello di quel pomeriggio.

“Ciao” rispondo ricambiando il sorriso. Per un istante sembra che voglia dirmi qualcosa, ma poi cambia idea e se ne va, lo spettacolo sta per cominciare.

A dir la verità non ho prestato molta attenzione a quello che accadeva davanti ai miei occhi, una serie di pensieri vecchi e nuovi si sono affollati nella mia mente per tutta la durata dello spettacolo. Verso mezzanotte, dopo i saluti finali, si abbassano le luci sul palco per accendersi immediatamente dopo sulla pista. La gente si riversa al centro dell’anfiteatro e comincia a ballare. Anche questa notte farà l’alba, tanto domani in aereo ci sarà tutto il tempo per dormire. Io resto un momento indecisa, quindi mi alzo. Mi giro solo un attimo a guardare verso la cabina del dj, ma il vetro è scuro e non si vede nulla. Sarebbe facile… penso. Potrei andare lì con la scusa di salutarlo, domani partiamo presto e lui non ci sarà. Ma non lo faccio. Perché sono strana… Sorrido fra me e me e mi avvio verso l’uscita. Sono già quasi fuori che una voce maschile mi urla di fermarmi. Mi volto di scatto, con il cuore in gola, ma non è il ragazzo della musica, bensì il maestro di tiro con l’arco.

“Te ne vai senza salutarmi?”

Non sono sicura che non mi stia prendendo in giro, ma gli tendo la mano. Lui ricambia la stretta con un sorriso “In fin dei conti non sei male come sembri…” dice strappandomi una grossa risata.

“Immagino che dovrei ricambiare la cortesia…” rispondo ancora ridendo. “Buona fortuna… e cerca di fare il bravo!”

“Buona fortuna anche a te…”

Adesso è davvero finita.

Uscirono dalla porticina nel muro di cinta e il vento dell’est venne loro incontro, odoroso di mare e chiodi di garofano e fiori esotici, facendo frusciare le fronde delle palme che circondavano le candide spiagge di Zanzibar.*

Epilogo

Molti anni e molti viaggi dopo, quella a Zanzibar resta ancora la vacanza più bella ed emozionante che abbia mai fatto. Ha segnato un passaggio nella mia vita e non la dimenticherò mai.

Prima di quel viaggio ero esistita solo di riflesso alla mia famiglia, al mio fidanzato di sempre, ero la ragazza timida ed impacciata che non lascia traccia di sé. Successivamente ho avuto modo di rivedere alcuni degli ospiti del villaggio con cui avevo stretto amicizia e di rendermi conto che quella volta le cose erano andate diversamente.

Era la prima volta che mi trovavo da sola in un posto sconosciuto e tanto lontano da casa. E’ stato il primo passo verso l’indipendenza e la scoperta di me stessa.

Non ho letto mai più il libro, ma Miss Hollis, il capitano Frost e la Casa delle Ombre sono ancora lì dove li ho lasciati.

Fine.
                                                               penny.blue

 

(*) Da Vento dell’Est di M.M. Kaye

Lug 21, 2007 - racconti brevi    3 Comments

Kivulimi – Frecce avvelenate

09eedcc3781fa11f33483c56241af201.jpgquarta parte

Non potevano esserci due case come quella: alta e bianca con numerose merlate, protette dalla parte del mare da una muraglia così massiccia da ricordare un antico forte; si levava direttamente dalle rocce sottostanti, un muro con una garitta all’estremità. Anche la spiaggia le era familiare: una falce di luna di candida sabbia, delimitata su entrambi i lati da due massicce scogliere coralline sormontate da una boscaglia di contorti pini marittimi e di vegetazione tropicale. Non poteva sbagliarsi… era la baia e la casa che ricordava… Attirata dallo scintillio dell’acqua Hero rivolse altrove la sua attenzione e seguì un altro sentiero che la portò sulla sponda di una fontana adorna di uccelli di pietra e piena di petali caduti, nella quale stupende farfalle purpuree si scaldavano al sole sopra enormi ninfee candide. Sul lato opposto della vasca crescevano cespugli giganteschi di fiori selvatici: ibisco, zinnie, rose e piante di corallo, una nuvola azzurrina di piombaggine e una cascata candida di gelsomini che permeavano le ombre della loro dolce fragranza. Fra i tronchi degli alberi e un merletto di fogliame si scorgevano appena alcuni gradini di pietra che portavano a una lunga veranda e, più in là, alla casa vera e propria… Proprio in quel momento un ramo spinoso, pesante di boccioli gialli e profumati, si impigliò nella sua gonna mentre si voltava per allontanarsi dalla vasca. Hero si chinò per liberarla e… restò di pietra, la mano paralizzata sull’orlo del vestito di cotone nero, il sorriso raggelato sulle labbra, lo sguardo fisso su un paio di gambe calzate da stivali di cuoio, perfettamente immobili all’altro lato del cespuglio… e si trovò a fissare, occhi negli occhi, un paio di iridi chiarissime e incredibilmente gelide.” (Da Vento dell’Est di M.M. Kaye)

 

Il battello a motore avanza a poche centinaia di metri dalla costa. Il mare di Zanzibar è blu cobalto e intorno a noi scivolano a pelo d’acqua i dohw, le antiche imbarcazioni arabe dalla vela triangolare, ancora oggi utilizzate per la pesca. Con la bassa marea, come veneri fuoriuscite dalle acque, emergono le candide lingue di sabbia, dando la luce ad una miriade di conchiglie e granchi di ogni dimensione. Un’infinita varietà di pesci e di coralli popola queste acque. Qualcuno avvista in mare aperto un branco di delfini e avverte concitatamente gli altri.  Io non stacco lo sguardo dalla costa, nella speranza di intravedere prima o poi le mura merlate della Casa delle Ombre, ma nulla che possa lontanamente corrispondere alla descrizione si profila all’orizzonte. Ancora due giorni prima della partenza. Domani faremo un giro nell’interno per visitare alcune piantagioni di spezie per cui Zanzibar è famosa in tutto il mondo. Manca poco al rientro a casa e nonostante abbia amato ogni istante di questo viaggio, disavventure comprese, mi manca qualcosa. Nel pomeriggio non potrò cimentarmi in un’altra escursione, perché ho un conto in sospeso da regolare. E la mente mi torna alla sera precedente.

Il maestro di tiro con l’arco è un tipo atletico ma non particolarmente bello, in compenso è un gran pallone gonfiato. Già nei giorni precedenti mentre ero intenta a consumare i miei pasti lo avevo sentito lamentarsi con colleghi e ospiti del villaggio dell’invadenza di alcuni ospiti, che passano le loro giornate importunando gli animatori con continue domande sul loro stile di vivere che li porta tanto lontani da casa per molti mesi all’anno. Due sere prima, per l’appunto, questo campione di diplomazia era capitato proprio al tavolo in cui io ed un gruppetto di altri ospiti stavamo cenando beatamente, scambiandoci chiacchiere e curiosità, e immancabilmente aveva cominciato a snocciolare le solite lamentele. Avevo atteso pazientemente che terminasse e poi guardandolo dritto in faccia gli avevo detto: “dovresti essere contento che qualcuno di interessi a ciò che fai dal momento che è impossibile interessarsi a ciò che dici…”. Silenzio. Lui era diventato paonazzo, ma non aveva risposto. Non poteva mancare di rispetto ad un’ospite più di quanto avesse già fatto. Io avevo ripreso a mangiare apparentemente tranquilla, ma in realtà incredula del mio comportamento. Tanta schiettezza non mi appartiene, ma in quell’occasione avevo dovuto ammettere con me stessa che negli ultimi mesi in me sono cambiate tante cose e lo dimostra il solo fatto che abbia deciso di intraprendere questo viaggio tutta sola… Tornando al tipo ne avevo proprio le scatole piene di lui, in fondo nessuno lo obbliga a fare ciò che fa ed è naturale che un lavoro così fuori dalle righe possa affascinare persone che passano la maggior parte della loro vita dietro una scrivania. A poco a poco al tavolo era ripreso il chiacchiericcio e lui con una scusa si era alzato ed era andato via. La sera seguente aveva avuto il compito di intrattenere gli ospiti proponendo degli indovinelli. Un classico, partendo da pochi indizi e con la facoltà di porre alcune domande bisognava indovinare la soluzione del giallo. In genere non amo stare al centro dell’attenzione, per cui per un bel po’ ero rimasta in silenzio, ma poi la curiosità aveva preso il sopravvento e incurante di tutte le persone che mi stavano intorno avevo cominciato a porre tutta una serie di domande e in men che non si dica ero arrivata alla soluzione. E questo per due volte di seguito, tanto che per un attimo mi ero quasi dimenticata della presenza di altre persone nella sala, a parte lui naturalmente. Alla fine si era passato ad altro e lui aveva approfittato di un momento libero per avvicinarsi a me ed alle due ragazze con cui avevo fatto amicizia e ci aveva invitate per il giorno seguente a cimentarci nel tiro con l’arco… Che bastardo! Era chiaro che lo stava facendo per vedermi umiliata e sconfitta! Naturalmente non avevo potuto tirarmi indietro.

 

Ed ora eccomi qui a giocare a Robin Hood… mai una volta che faccia la parte di lady Marian. Sarebbe così riposante! La corda tesa al massimo, con l’indice ed il medio della mano destra all’altezza del naso a pochi millimetri dal viso, il gomito allineato con la mano. Abbiamo tre frecce a nostra disposizione e ne ho già sprecate due, ma non mi sono voltata dalla sua parte a guardare la sua espressione gongolante. Si alterna fra le due ragazze per aiutarle a correggere il tiro, naturalmente si guarda bene dall’aiutare anche me. Cerco di mantenere al meglio la postura, anche se è faticosissimo, è importante non solo per un tiro decente, ma anche per non ferirmi il viso con la corda. Sono concentratissima, tiro un profondo respiro e lascio andare le dita… Trattengo il fiato e… Incredibile! Centro! Resto immobile. Non posso crederci! Nemmeno questa volta mi giro a guardarlo, non so se si è accorto del mio tiro.  Prima di muovermi per andare a raccogliere le frecce sul bersaglio devo aspettare il suo segnale. Potrei diventare il bersaglio di qualcun altro. Passa un tempo interminabile e quasi sussulto quando lo sento dietro di me che a voce bassa dice, come se mi avesse letto nel pensiero: “Ho visto…” ma non lo guardo in faccia e non ho idea della sua espressione. Poi ci da il segnale e tutte e tre andiamo a raccogliere le nostre frecce. Mi cimento in altri tre tiri, discreti, anche se non riesco più a fare centro e me ne vado. Meglio non sfidare la fortuna. Lui ha una faccia impenetrabile e mi saluta con un cenno della testa.

 

Continua….
                                                         penny.blue

Lug 19, 2007 - racconti brevi    3 Comments

Kivulimi – mattino di un nuovo giorno

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parte seconda

La spiaggia si perde a vista d’occhio, la sabbia è bianca e sottilissima, disseminata di conchiglie e piccole pozze d’acqua, segno evidente del passaggio dell’alta marea. Il villaggio si intravede appena da qui e la natura appare incontaminata e selvaggia, in alcuni punti quasi inaccessibile. Cammino sulla battigia, incantata alla vista delle palme sottili ed eleganti, protese verso il mare quasi a volerlo sfiorare. Non mi rendo conto del passare del tempo, qui in questo luogo sembra non avere tanta importanza e comunque è ancora presto perché, a parte me, la spiaggia è ancora deserta.
Gli altri ospiti hanno fatto tardi ieri sera, ho scambiato quattro chiacchiere con alcuni di loro e come era prevedibile la maggior parte di essi è qui per motivi totalmente diversi dai miei. Io mi sento un’eroina dell’epoca coloniale e mi guardo bene dal raccontare ad alcuno il mio “segreto”.
Sono stata sollevata, comunque, di constatare che non ci sono soltanto coppie e che non dovrò isolarmi troppo. Va decisamente meglio e devo ammettere che l’atmosfera è incantevole e le notti africane spettacolari, come ho potuto constatare ieri soffermandomi sul patio del mio alloggio. Da troppo tempo forse non mi soffermavo a scrutare la notte, ad ascoltare il silenzio, per il semplice piacere di farlo, con la mente sgombra da ogni sorta di pensiero. Quando finalmente mi sono decisa a rientrare la stanza mi è sembrata decisamente più accogliente ed è stato molto romantico addormentarmi in quel letto avvolto come in una nuvola dal velo impalpabile della zanzariera. Questa mattina, poi, mi sono ritrovata a fare colazione su di una palafitta di legno circondata dalla foresta tropicale con una scimmietta che di tanto tanto compariva dal fitto fogliame di un albero per venire a rubare qualcosa da mangiare.
Sto per addentrarmi in un punto in cui la spiaggia non è che una striscia sottile ed impraticabile quando all’improvviso mi trovo di fronte uno spettacolo inaspettato. I tre uomini sono alti e diafani, la pelle è scura e trasparente come il miele d’acacia, ma i lineamenti sono sorprendentemente delicati e belli. Indossano drappi rossi confezionati in un tessuto grezzo e pesante ed impugnano una lancia. Mi sbarrano la strada facendomi segno che oltre quel punto non è possibile andare. Non sono spaventata, sono gentili e mi sorridono, uno di loro in particolare sembra apprezzare molto ciò che vede…
Faccio sfoggio di tutto il mio repertorio swahili dicendo jambo (ciao) e a malincuore faccio dietro front. Scioccamente mi ero illusa che sarei riuscita a trovare questa stessa mattina ciò che cerco, sempre che… Tornando sui miei passi incontro una coppia di turisti, mi fermo con loro a chiacchierare e mi spiegano che gli uomini che ho appena incontrato sono guerrieri Masai, arrivano qui dal Serengeti per lavorare come guardiani dei villaggi. Molto pittoresco… anche se la lancia mi sembra alquanto anacronistica come arma di difesa a meno che non ci si debba difendere da una turista svampita come la sottoscritta.

continua                                 
                                           penny.blue

 

 

 

 

Lug 15, 2007 - racconti brevi    5 Comments

La rondine

e329aff4f4151a2e9cd6f63d4821d2ca.jpgGuarda” la voce di mia moglie richiama la mia ettenzione, stiamo scendendo in paese lungo uno dei vicoli che dall’alto si dirigono verso il lago, seguo con gli occhi il gesto che mi indica di guardare verso terra, nell’algolo di giunzione tra la pavimentazione stradale e il muro della casa, poco distante dalla vetrina di un negozio, scorgo una pallina raggomitolata, bianca e nera, una piccola rondine. Sta li ferma, quasi immobile, solo il leggero movimento del capo, a tratti ne rivela la vita, sembra tranquilla, quasi rassegnata. Mi chino e l’osservo, è un pulcino, forse caduta dal nido, forse alla sua prima esperienza di volo, dolcemente la accarezzo piano con un dito, non si muove, non si agita, non mostra nemmeno paura. Non so cosa fare, non voglio lasciarla lì, una rondine a terra è una rondine morta, ma cosa potrei fare? Impossibile nutrire un uccellino così piccolo, insettivoro per giunta, ma non lo voglio lasciare, ci sarà pure una soluzione. Piano, piano, cerco di inserire un dito al di sotto, spingendo dolcemente, ed è lei che si solleva leggermente e con le zampette si aggancia al dito, quasi fosse un trespolo. Mi sollevo, con quella piccola palla di piume e penne che adagio si arrampica sulla mano per trovare una posizione comoda, sbatte le ali, si porta sulla sommità della mano, poi si accuccia di nuovo quasi si sentisse nel nido.
Ecco, mi dico, ora se non trovi una soluzione efficace, per aiutare il pulcino, ci rimarrai male per parecchio e vorresti non  averlo mai incontrato. Una piccola folla di passanti si è radunata e osserva con curiosità la scena, suggerimenti, dubbi. Improvviso un movimento, un pigolio, non so perchè ma istintivamente alzo la mano verso il cielo, e la piccola rondine fra la sorpresa di tutti con un ultimo trillo spiega le ali ed in modo ancora insicuro prende il volo verso l’alto, verso il nido. Oggi mi sento felice, ho tenuto nelle mani una rondine.

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Lug 9, 2007 - racconti brevi    1 Comment

Alla locanda del buon consiglio

c09d46805fba86d0a37c6609c5d06323.jpg La si incontra sulla strada che porta al valico, una strada in terra battuta tutta buche e sassi che sale in continui tornanti in una stretta valle tappezzata di pinete dalle quali fuoriescono, come rinsecchite dita di una mano arcigna le cime innevate dei monti. La trovi là, dove la strada inizia a spianare, dietro l’ultimo tornante, dopo ore di cammino e quasi allo sfinimento per la fatica, si perché a quel luogo ci si può salire solo a piedi, ti appare d’avanti agli occhi all’improvviso quasi come un  miraggio e tale ti pare proprio in verità, offuscata e distorna nell’immagine dalle gocce di sudore che copiose ti colano dalla fronte sulle sopraciglia sino a giungere agli occhi. Ed è proprio in quel punto che ti soffermi ad osservarla, appena dopo la curva, ti fermi, raddrizzi la schiena piegata dalla salita e dalla fatica, e con il fazzoletto ti pulisci del sudore la fronte e ti asciughi gli occhi per poi guardarla di nuovo e scoprire, con un sospiro di sollievo che non è un miraggio, che è vera ed è lì che ti aspetta. Costruita tutta in pietre, con il tetto in ardesia, grigia, ma da quel grigio escono dirompenti della macchie rosse, come fossero rose su una pietraia, le persiane delle piccole finestre verniciate di rosso e, dietro ai vetri, si possono scorgere le tendine bianche a quadretti rossi anch’esse e accanto, vicino a un paio di tavoli  ed ad alcune panche sempre in pietra, su di un piccolo pennone sventola la bandiera. L’impressione di essere giunti in un altro mondo è palese, la sensazione che quella casetta, quella valle, quei boschi di pini, quei monti così alteri e ancora coperti di neve possano appartenere solo ad un sogno ti permea ed era con questo spirito che camminando piano, quasi con imbarazzo, sentendoti ancora estraneo al luogo, ti avvicini all’ingresso di quella casetta, dove sulla porta capeggia un insegna di legno e dove si può leggere inciso ” Alla locanda del buon consiglio “.

La porta è stretta, formata da due grandi pilastri di pietra sormontati da un’altra pietra posta sopra in orizzontale a mo’ di architrave, è stretta ma non e bassa, eppure l’impressione è tale che tutti, anche i più piccoli entrando piegano il capo, forse in un inconsapevole inchino di rispetto verso il luogo del quale stanno per varcare la soglia. Dentro è ombreggiato e la differenza con la luce forte a cui si era sottoposti all’esterno costringe a strizzare gli occhi più volte per adattarli all’ambiente e lì tutto è legno il bancone del bar, il pavimento, i grossi tronchi che ai lati fungono anche da colonne portanti, le panche, i grandi tavoli scuri in legno massello su cui cappeggiano la tovaglie anche queste a quadretti bianchi e rossi come le tendine alle finestre. Solo il grande camino acceso, sulla parete di fondo e dove fuma un immenso paiolo carico di polenta, richiama la costruzione in pietra dell’esterno. Attorno ai vari tavoli sono sedute alcune compagnie, non c’è molta gente oggi, è un giorno feriale, tutta gente non più giovane e con ogni probabilità abitanti di uno dei due paesini che si incontrano ai lati del valico,  montanari e contadini che vivono di quanto la terra di questi luoghi può dare, anche la bellezza ha i suoi difetti, è avara ed il poter fruire di certi luoghi ha il suo prezzo, la fatica. Hanno i volti cotti dal sole, i tratti del viso duri, marcati, che paiono scavati nel legno, ma non c’è durezza in quelle espressioni, c’è fatica, stanchezza, c’è quella pazienza che la terra ti insegna ad avere se vuoi godere dei suoi frutti, e negli sguardi la comprensione per la fatica degli altri, nel sorriso tutto l’amore che ancora sono in grado di dare, offerto così, senza nulla chiedere in cambio, con un gesto della mano, un leggero alzarsi del bicchiere, un saluto al tuo arrivo, un silenzioso omaggio a te e alla fatica che ti è costato per raggiungere quel luogo. Sono lì perché è stagione di funghi, e perché loro vivono anche di questo, hanno i loro canestri pieni di porcini bruni di pineta, di quelli più chiari, i fioroni,  raccolti all’inizio della valle e di gallinacci o perseghit, come chiamano da queste parti i finferli, sono contenti del raccolto e sorridono, domani le loro donne o i loro figli, saranno al mercato, o lungo le strade che giù sotto attraversano la valle a vendere i frutti delle loro fatiche, perché loro saranno ancora li, nel bosco che sale ripido verso le cime intenti alla cerca e alla raccolta di quanto la natura di quel posto ha voluto generosamente donare. Ci sediamo in un tavolo d’angolo, anche noi vogliamo mangiare qualche cosa, e subito la padrona ci si avvicina, non esiste una carta, un menù, con voce cantilenante, pacata e dolce, ci illustra quanto ci sia di disponibile, salame nostrano, bresaola, polenta e formaggio, polenta e funghi, polenta e stufato, sì, da queste parti la polenta la fa da padrona. Chiediamo se non sia possibile avere la polenta con un po di tutto, ci sorride e dice di si che non c’è problama e da bere? Vino rosso sfuso e…………gazzosa, si quello che da queste parti chiamano la ciciarada, la chiaccherata, perché d’avanti ad un bicchiere, si passano delle ore a parlare, a ridere e a raccontarsi, senza il rischio di esagerare nel bere, perché il vino, pur esendo corposo, non ha un alta gradazione alcolica e la gazzosa ne riduce gli effetti,  anche perché poi, c’è ancora da scendere sulle proprie gambe. Veniamo serviti, la brocca in coccio del vino, la bottiglia di gazzosa, i bicchieri sono quelli in vetro pesante che riempiono interamente la mano, a sei facce e svasati verso l’alto, grezzi, poi arriva lei la regina di questi luoghi, la polenta, servita in ampi piatti di portata, una parte già mischiata a formaggio e burro, la polenta taragna, l’altra nuda ma accompagnata a fianco da abbondanti mestoli di funghi trifolati e stufato e vi assicuro che allora lì, in quel luogo, il paradiso non è poi così lontano. Affondiamo le forchette nel piatto e, in religioso silenzio assaporiamo quanto ci è stato servito, e forse a causa della fatica, della fame, del luogo, nulla ci era mai parso così buono, e decidiamo che un pasto così debba merirate anche un degno finale, una fetta di crostata e un bicchierino di grappa entrambi al mirtillo sono il suggello al nostro pasto e meritata ricompensa alle nostre fatiche. Poi un breve sonnellino al sole naturalmente, all’ombra non sarebbe possibile, prima di riprendere la via della valle e raggiungere il paesino dove abbiamo lasciato l’auto parcheggiata e giunti a valle ci riproponiamo di tornare in quel luogo e siamo certi che lo rifaremo e ricordiamo anche di esserci dimenticati di chiedere alla locandiera quale fosse il buon consiglio rendendoci  conto nello stesso istante come non ne sia più il caso.

 

                                                                                            

 

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Lug 4, 2007 - racconti brevi    2 Comments

Andiamo a fare uin giro?

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La voce di mia moglie mi raggiunge, mentre sono al bagno a farmi la barba, alle 2 del pomeriggio? Beh sì, sono o non sono pensionato? Si può fare, rispondo,  ma dove,  non mi va di prendere la macchina. No repplica lei niente macchina, scendiamo in paese, prendiamo il battello e raggiungiamo Bellagio, ci fermiano a bere qualche cosa poi  torniamo.Guardo fuori dalla finestra, la giornata è stupenda, una giornata da foto mi dico, l’idea mi estusiasma. D’accordo rispondo mi preparo e andiamo. Prendo il mio giocattolino, controllo che tutto sia in ordine, la scheda di memoria è inserita, la serie precedente di foto scaricata al computer, memoria libera dunque. Partiamo, già sulla strada per arrivare all’imbarcadero i click sono stati numerosi, si prosegue a scattare anche sul battello affollatissimo, e giunti a Bellagio la frenesia sì scatena, sembra un paese creato apposta per essere fotografato, vetrine di negozi, terrazze di ristoranti, vicoli ,scalinate, particolari…..click, click, click, con la digitale è così, ti toglie l’inibizione dell’errore nello scatto, tanto poi al massimo si cestina, click click cl……., buio, mi sono scordato di mettere la batteria in carica. Mi sento come un cane bastonato, perso e stupido, mia moglie mi guarda di sottecchi, vorrebbe dirmi qualche cosa ma preferisce tacere temendo una mia reazione scomposta, una giornata così dovrò aspettarla a lungo e forse allora avrò altre cose da fare temo; mortificato, ripongo la fotocamera nella custodia e mi reco in un bar, mi siedo ad un tavolino ordino una birra in attesa del battello che più tardi mi ricondurrà a casa. Comunque penso un po’ di foto le ho fatte e già mi prende la smania di rientrare per poterle scaricare al computer ed osservarle, dopo avere ricaricato la batteria naturalmente.                             

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Lug 3, 2007 - pensieri    Commenti disabilitati su ricetta…. dalla cucina odore di gelsomino

ricetta…. dalla cucina odore di gelsomino

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…. una giornata tra il dire e il fare: Fare, dire, baciare erano le tre penitenze inflitte a chi perdeva nei giochi da bambina. Il gelsomino ha un profumo dolciastro ed intenso, a volte mi fa venire mal di testa altre respiro profondamente per immergermi nel suo piccole fiore, come un’ape che ne succhia il nettare dolce. Amo il vivere osservando la natura e non disdegno il caos cittadino, intervallare la quiete paesana con passi svelti e anonimi della città. Fa caldo e il cemento restituisce il suo odore, allora ripenso al gelsomino e mi vien  da scappare …. i cavalli corrono, scappano davanti a qualcosa che temono, sono animali paurosi eppure il toro della camargue avverte il cavallo come predominante, lo rispetta entrambi si rispettano. Gli animali in genere non aggrediscono, se non per paura …. l’uomo che fa? Forse la stessa cosa, a volte la violenza è gratuita, altre sofferta, la ricetta per un equilibrio? Non lo so, l’unica ricetta che mi piacerebbe rigustare è un piatto tipico friulano che mi preparava la nonna, ma ora anche lei non c’è più ed io non l’ho scritta ….

Lesartists ….

 

 

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