tutti i colori del grigio
ombre e luci
Padre,
il tuo ricordo mi assale
ora
che non sei più che ombra.
Dai miei pallidi ricordi infantili
riappari confuso
nascosto dietro un vetro appannato,
il tuo volto
inesorabilmente si confonde
in innumerevoli abituali gesti
all’infinito ripetuti.
Sovrapposti sorrisi
stirati da stanchezza,
occhi lucidi
di lacrime mai versate
celati da opache lenti.
Il capo chino
sul libro mastro di casa,
(un povero quaderno)
teso a far quadrare
impossibili conti
che mai permisero
un attimo di riposo,
un sorriso che non celasse
l’inganno,
per non mostrare a noi,
innocenti,
il peso della vita.
Padre,
solo ora ricordo
che mai allora
avemmo occasione
di parlare di alcunché
che non fosse d’obbligo,
ne allora ne poi.
Padre,
come si è perso il tempo
nei silenzi
che la stanchezza
portava a tarda sera.
Ricordo padre
la tua pena,
la tua impotenza
in quella casa così piccola
in un mondo tanto grande.
Ricordo padre,
quando raramente raccontavi
della guerra, dell’Albania,
dove dicevi
si combatteva senza morire
e si moriva senza combattere,
la partenza
l’occupazione in Francia
dove a salvarti fu
quel moschetto inutile,
ruggine, senza pallottole
che hai partigiani
provocò un sorriso
ed un cenno, vai.
Ricordo ancora
padre,
il tuo primo, vero sorriso
la mal celata gioia
rivelata
il luccichio degli occhi
di fronte a quella moto,
il primo lusso
di un intera vita.
Ricordo padre
i tuoi racconti entusiasti
per le tue gite fuori porta,
a Novara, a Pavia,
ricordo il tuo orgoglio
per quella vittoria
nella gara di regolarità.
ottenuta per merito
e per fortuna
senza un cronometro.
Ricordo
la tua esperienza più grande
la tua emozione più forte,
più forte delle guerra d’Albania,
della spedizione in Francia,
della fuga in Svizzera
braccato dei tedeschi,
Il tuo viaggio in moto
a Barcellona,
un sogno realizzato,
forse,
l’unico.
Giuseppe, detto il Bigia, nato in una piccola frazione di Ballabio in Val Sassina, ora provincia di Lecco. Giuseppe innamorato della sua valle e dei suoi monti, Giuseppe detto il Bigia, soprannome che gli era rimasto appiccicato addosso sin da ragazzino, perché già da allora era solito bigiare la scuola per arrampicarsi lungo i sentieri impervi che conducevano lungo le valli alla raccolta di narcisi in primavera, di funghi o di castagne alla fine dell’estate o all’inizio dell’autunno, oppure per lanciarsi, con la voglia di conquistare il mondo negli occhi, lungo le piste innevate di Artavaggio, piccola stazione sciistica locale. Oppure salire su, in alto, lungo le ferrate e le pareti che conducevano sulle cime del Resegone, delle Grigne, del Sodadura, sempre con la stessa voglia negli occhi. Giuseppe, operaio in una vicina officina metalmeccanica, alto, magro, scuro, di un aspetto quasi solenne nella sua semplicità, così simile ad un crocefisso alpino. Uomo di poche parole, di lunghi silenzi, silenzi pari a quelli delle sue valli, delle sue montagne. Silenzi intervallati da luminosi e semplici sorrisi, da sguardi che si sprigionavano da profondi occhi azzurri dentro i quali era così facile leggere il suo grande amore per la vita, si perché lui alla vita aveva chiesto solo quello che la vita avrebbe potuto dargli, si lui il Bigia il suo mondo lo aveva già conquistato. C’erano due grandi amori nella sua vita, la montagna e lei, Angela, uno scricciolo di poco più di quaranta chili, piccola, minuta dolce, allegra e disponibile. Era quasi buffo vederli assieme lui lungo allampanato, tranquillo, lei al suo fianco sembrava una bambina vivace al fianco di un padre, ma quando salivano in cordata lungo le pareti, o quando assieme scendevano lungo le piste innevate, ecco che improvvisamente quella differenza che si notava immediatamente vedendoli uno accanto all’altra scompariva e subito saltava agli occhi di chi li osservava l’eleganza, la contemporaneità dei movimenti quasi si muovessero in simbiosi consapevoli entrambi dei movimenti dell’altro. Si muovevano sempre assieme, dove c’era uno c’era anche l’altra, si racconta che lui avesse anche cercato di cambiare lavoro e di farsi assumere nel caseificio della valle dove lei lavorava, ma non perché ne fosse geloso, solo perché Angela, per lui, era come la montagna, un amore troppo profondo per potersene staccare anche solo per poche ore. Poi un brutto giorno, Giuseppe perse uno dei suoi grandi amori, una fredda sera invernale rientrando dal lavoro forse a causa del fondo stradale ghiacciato, Angela perse il controllo dell’auto e finì nel greto del torrente sottostante, la trovarono solo il mattino dopo, quando ormai era troppo tardi. Il Bigia scomparve, gli amici si chiesero dove fosse finito perché nessuno lo vide più sulle piste per tutta la durata dell’inverno, lo incontrarono nuovamente in primavera lungo uno dei percorsi che portava alle vette, stava là, accucciato in un affranto di roccia, dove erano soliti fermarsi per un breve spuntino prima di continuare la salita lui e Angela, con gli occhi fissi verso le cime e le valli che gli si aprivano d’avanti agli occhi, salutava con un sorriso quanti passavano, e sempre con un sorriso scuoteva il capo con un gesto diniego a quanti gli chiedevano di proseguire con loro la salita. La sua vita divenne quasi un rito, nel tempo libero saliva sui suoi monti ad abbracciare le montagne che tanto amava per ricordare assieme a loro quell’altro grande amore che la vita gli aveva tolto. Tranquillo e silenzioso, sempre sorridente e generoso, sì perché era sempre il primo ad accorrere in caso di incidenti sulla neve affiancando quelli del soccorso, o a partire sulle pareti, anche da solo, in aiuto di arrampicatori in difficoltà o alla ricerca di qualcuno smarrito. Così passavano gli anni, sempre uguali ripetitivi nei gesti e nei ricordi ma mai monotoni, perché accompagnati dall’ amore per i luoghi e nel ricordo di quell’altro amore. Continuando a scalare, continuando a sciare sempre con quel sorriso, con quello sguardo, con quel leggero cenno di saluto accennato col capo prima di partire per l’arrampicata o lanciarsi giù lungo la pista. Sino a quell’anno, sì, sino a quel malaugurato anno in cui a causa della stupidità, dell’incapacità dei gestori degli impianti che per anni avevano pensato solo al guadagno senza mai rinnovare gli impianti la società di gestione venne chiusa e fu dichiarato il fallimento. Nessuno rilevò gli impianti i costi di ammodernamento erano troppo elevati, e a parte gli habitué la maggior parte degli sciatori frequentatori di quella valle, si erano già diretti alle piste di Bobbio distanti solo pochi chilometri e da tempo dotate di nuovi impianti. Fu così che anche i rifugi in quota solitamente aperti anche d’estate furono costretti a chiudere non potendo garantirsi solo quel breve periodo di attività guadagni sufficienti alla propria sopravvivenza. Per Giuseppe fu troppo, la vita gli aveva strappato uno dei suoi amori, ora degli avidi incapaci lo avevano privato anche di una parte delle sue montagne, proprio di quella parte che lui da anni percorreva a piedi o con gli sci, in quello che era diventato il suo santuario dei ricordi. Non avrebbe più potuto percorre quelle piste sciando solitario ed immaginando si sentire dietro il leggero sfrigolio della neve sotto gli sci di Angela, non avrebbe più potuto sedersi lassù al rifugio sempre allo stesso tavolo, sfogliare quel menù che ormai conosceva a memoria guardare verso la sedia accanto quasi a voler chiedere, “E tu cosa prendi?” . No, questo era troppo, non gli avrebbero tolto anche quegli ultimi ricordi, non lo avrebbero privato dell’amore per quei luoghi, delle sue montagne, non gli avrebbero rubato quell’ultimo sogno. Fu così che quel giorno Giuseppe, detto il Bigia, decise di andarsene.
Malgrado la volontà e gli sforzi di alcuni la stazione sciistica di Artavaggio non fu più riaperta, in quanto considerato antieconomico il ripristino e la manutenzione degli impianti. Io ogni tanto torno da quelle parti, vado a sciare sulle vicine piste di Bobbio e alcune volte dagli impianti in alto, guardo giù a valle e mi sembra di scorgere due figurine che all’unisono si muovono con eleganza sulla neve, ciao Bigia.
refusi
ci sono modi diversi per ricordare i luoghi, dove siamo nati o dove siamo
vissuti a lungo o addirittura dove siamo passati per un solo breve istante
della nostra vita, possiamo descriverli con immagini del cuore o dell’anima
La mia città
Palude soffocante d’edifici che invadono una campagna smorta, città percorsa da ombre frettolose che a grappoli attraversano strade trafficate, città di sguardi rapidi, giornali spiegazzati, pedoni che incrociano tram sferraglianti e irosi. La cinta muraria cadente, solcata d’edera malata, lascia penetrare milioni di menti e di pensieri che entrano, esocono, controbattono disegnando colorate idee sulle grigie facciate. E’ la città che amo. |
comparsa |
o ancora descrivere più semplicemente un luogo, così come lo si vede in un
determinato momento, una piccola istantanea descrittiva
Piazza duomo
Maestosa, squadrata,
geometrica e pura
appare improvvisa
racchiusa fra mura.
Di sotto le case
i portici ombrosi,
si muovon danzanti
in archi sinuosi.
La luce dell’alba
che cade radente
disegna il profilo
del duomo imponente.
Fra guglie e merletti
troneggian pesenti
in profili marmorei
la statue dei santi.
Il vecchio Broletto
ai lati del Duomo
ricorda gli antichi
splendori di Como.
e ancora più a lato
svettando nell’aria,
solenne si leva
la torre campanaria.
Rintoccan le ore
e scossi sai suoni,
volteggian nell’aria
a stormi i piccioni.
Il mattino si inoltra
ed i primi rumori
inizian sommessi
a eccheggiare fra i muri.
Già i primi turisti
si affaccian sorpresi
con gli occhi sgranati
i fiati sospesi,
ma i turisti moderni
di tempo ne han poco
sollevan le reflex
e scattan le foto,
e poi, via di fretta
con passi veloci
portandosi appresso
ricordi fugaci.
Ma incurante di tutto,
dei santi e del duomo
si muove frenetica
la gente di Como.
refusi
o ancora ci sono parole che non descrivono un luogo
ma le sensazioni che ci hanno pervaso un giorno camminando
per le stade di una città a noi sconosciuta
Darmstadt 27/!!/71
Addio, città straniera,
che vidi in un istante
di fuggevole vita.
Entro ordinate strade
volsi il pensiero
in cieli grigi
assaporando il vuoto
carico
del sonno della sera
che,
inesprimibile malinconia,
parlò al futuro
di una nuova vita
ancora da forgiare
in nuove mura.
refusi
In bilico
Ondeggiano,
in bilico
fra un granello di sabbia
e la via lattea,
spreco il mio genio
in un parossismo di idiozie.
refusi
Orizzonti
Linea azzutta di mare,
linea azzurra di cielo,
in un monotono continuo
disperso,
il mio io
cerca.
refusi
Comparsa
Lesartists ….
La mia Africa è solo un sogno
che talora si affaccia alla mia mente,
è un brivido caldo
che scivola nel mio essere,
una calda emozione
che fa risuonare il mio cuore
con un tam tam.
da: Dedicato al Cinema – Music.Box
Sì i colori, le immagini, le luci, possono nuovamente prendere posto al fianco delle parole che li accompagnavano, descrivendosi a vicenda, integrandosi nel tentativo di creare una sola immagine visiva e di pensiero. Da qualche giorno avevo smesso, deluso e un po’ amareggiato, di scrivere, ma ora col colore tornano anche le parole. Non ho preparato nulla da postare, visto che non sapevo ne se e quando ciò si sarebbe verificato, potrei postare qualche poesia, si quelle non mi mancano ne ho ancora parecchie, ma ora voglio dare spazio, come faccio ogni tanto a delle/gli amiche/ci che in questi giorni mi hanno tenuto compagnia in forum
refusi
Ombre cinesi
…. dentro una scatola trovò la sua ombra. Non si era mai accorta di averla persa. Lo specchio rifletteva i colori della stanza e attraverso strani giochi di luce sentiva chiaramente i colori che la vestivano …. i colori respirano e vestono le giornate, ne era consapevole, ma proprio non si era mai accorta di aver perso una parte di lei ed ora nell’averla ritrovata provò un senso di vuoto. Senza ombre non ci può essere luce …. aveva vissuto nel buio
Lesartists
Ombre cinesi
… Aveva vissuto nel buio di un carillon, mentre mani bramose giravano la chiavetta per ascoltare una melodia… ma la musica del suo cuore mai l’avevano sentita. La ballerina del carillon girava su se stessa per non fissare lo sguardo in uno specchio che rifletteva la vita… E poi la scatola tornava a chiudersi e lei nel buio respirava i suoni ovattati che arrivavano dall’esterno… ma custodiva il suo canto e la chiave che apriva il suo cuore… perché, in fondo, odiava quelle mani bramose che volevano che suonasse per i loro capricci.
Music.box